mercoledì 19 marzo 2008

Limone e cioccolato racconto del mese di marzo 2008 su "Penna d'oca"!

Incredibile. Eppure qualche volta succede.

Capisco. Anche io non ci credevo. Eppure guardate questo link

Ah, dimenticavo. Se voleste leggerlo, il racconto è qui.
Ciao
Piero

venerdì 14 marzo 2008

Racconto - A pranzo da mamma


Odio guidare la macchina più di ogni altra cosa. Odio la coda al semaforo e guardare le faccie sconvolte delle altre persone. Non sopporto quelli che ti vogliono lavare i vetri già puliti e che ti sbattono in faccia pezzi di cartone, con sopra situazioni familiari degne di uno show televisivo pomeridiano.
Mamma è stata telegrafica. “Vieni, ti aspettiamo. Ciao.”
Certo. Avrei potuto trovare una scusa qualsiasi. Lavoro, impegni. Ci sarebbe voluto un attimo. L’ho fatto già altre volte.
Invece stavolta eccomi qua. Ormai sono fuori città. C’è un po’ di autostrada da fare. Cerco qualcosa alla radio. Anche se so che non c’è niente di interessante per me, oggi.
Sono sulla provinciale. Si cominciano a scorgere le colline. Ancora pochi minuti e vedrò il boschetto.
Marco, ma ti ricordi il rifugio? Stava proprio qui, vicino casa tua. A parte te e me, nessuno sapeva di quelle quattro tavole, inchiodate su quell’albero. Ma quanto c’è voluto, per scovare tutto quello che serviva? Dei mesi, credo. I chiodi e il martello ricordo che li abbiamo rubati a tuo padre.
E la scala? Abbiamo passato non so più quanti pomeriggi a provare a farne una. Era un’impresa impossibile. Ma come si fa? Con la corda? E chi è capace? Poi tu hai detto ci penso io, so come si fa. Ma piantala. Vabbè. Proviamo.
La tua scala si è rotta dopo aver salito due pioli. Poi l’hai chiesto a tua mamma, zia Anna. E ci ha pensato lei. Una cosa incredibile! Aveva cucito con dello spago dei pezzi di vecchi manici di zappa a quelle due corde.
Quando calavamo quella meraviglia dal rifugio sembrava di scendere da un elicottero, come nei vecchi film quando cercano di salvare qualcuno da un’inondazione.
Non smettevamo più di salire e scendere. Per un paio di giorni non abbiamo fatto altro.
Il paese è vicino. Ecco il canale. La chiusa dove andavamo a pescare. Ma ti ricordi quanto eravamo scemi? Pescavamo e buttavamo via il pesce. Osservare quei poveri esseri a terra spalancare la bocca e le branchie a scatti era troppo per noi. Dei bimbi rantolanti. Nessuno di noi due ha mai resistito. Il pesce tornava a nuotare dopo pochi minuti.
Gli altri favoleggiavano di tonnellate di pesce pescato senza problema. E noi zitti.
Ma come poteva uscire tutto quel pesce da quel canaletto? E soprattutto, chi lo aveva mai visto? Probabilmente anche gli altri ributtavano i pesci presi in acqua. Eravamo tutti dei veri pescatori, insomma.
Ecco il paese. C’è già la folla davanti la chiesa.
E quanto mi sto sentendo triste, ora.
Eccoti, Marco. Scusa, ma per ora faccio finta di non esserci. Non sono ancora pronto. Da te vengo dopo, mi dico. Dammi un’attimo. Il tempo per salutare qualcun’altro.
Il prete si scaglia contro le moderne mistificazioni della morte. Come Halloween. La morte è ben altra cosa. E oggi non so dargli torto.
Non posso credere che zia Anna non ci sia più. Era la più giovane e la più bella di tutti, in quella famiglia. Se ne è andata in due mesi. Come faccio a trovare un senso a tutto ciò?
L’abbraccio di Marco è fortissimo. E io non so cosa dire. Le sue lacrime mi inondano il viso. Andiamo.
Mentre l’operaio del cimitero chiude il loculo, anche le persone più disinteressate alla cosa smettono di parlare. Il rumore della cazzuola che gratta e reimpasta il cemento rimbomba in quelle quattro mura, affollate di foto e fiori.
Ciao Marco, magari ci si ritrova qualche altra volta, magari in un momento migliore di questo.
Come se poi il tempo per vederci esistesse veramente. Magari per raccontarci ancora del rifugio e delle pescate nel canale.
E’ finita. Si va a pranzo da mamma.

Copyright Piero Mattei 2007

martedì 4 marzo 2008

Racconto - Tamò *


Stamattina il giro tocca al postino nuovo.
Prende la sua bici e dopo un’oretta si addentra a Vico S. Vitale. Non essendo stati ancora inventati i citofoni, per richiamare l’attenzione delle persone destinatarie della posta, alza il viso verso i balconi del primo piano e chiama.
“Laurìa! Posta!”
Una folla si affaccia a tutte le finestre del vicolo.
“Chi Laurìa cercate?”
“Giuseppe!”

Delusa, la maggior parte delle persone rientra in casa, tranne Giuseppe, che scende e apre il portone, per ritirare la posta.
Ogni volta la stessa storia. Vico Laurìa. Così si dovrebbe chiamare.
Davanti l’ingresso del vicolo la mattina è un viavai di venditori ambulanti, donne che vanno al mercato. Sotto gli occhi degli anziani seduti sulle loro sedie impagliate, a contare le persone, specialmente i forestieri.
Ogni tanto arriva pure qualche Ape. L’unico mezzo motorizzato del paese. Si affaccia al vicolo, accosta e si ferma, spegnendo il motore. Poi l’autista scende, prende il carico da dietro e lo porta a mano dove serve. Nessuno si addentra mai nel vicolo se non a piedi, come a non voler violare il suo silenzio e la sua quiete.
Un piccolo viandante curvo su un bastoncino di canna cammina lentamente. A passi piccolissimi, strisciando i piedi per terra. Come a voler misurare la lunghezza di quel budello di pietra viva tra due case affacciate l’una sull’altra, dove gli odori e i rumori si mischiano.
Porta una giacca marrone, sopra ad una camicia a quadri. Un paio di scarpe consunte, con i lacci ormai mozzicati dall’uso. Sotto alla coppola verde un viso roseo, con poca barba e degli occhi chiarissimi. Guarda per terra e misura tutti i passi. Uno dopo l’altro. E sorride.
Una donna anziana si affaccia ad una delle finestre in fondo al vicolo.
“Tamò! Tamò!”
Tamò non risponde. Si ferma e, senza alzare la testa, alza il bastone curvo verso il cielo, come ad indicare un punto immaginario nel cielo. E’ il suo modo per dire eccomi, arrivo, non serve strillarmi. Non ho fatto niente. Dammi tempo.
Altri tre passi. Poi Tamò si ferma e con il bastone scansa dalla strada le cartacce. Come fa sempre. Quella è la sua strada da più di cinquant’anni e anche se qualcuno ci passa pensando di poterla usare quando vuole e farci quello che crede, resta la sua. Il Sindaco, lo chiama qualcuno.
Tutti lo trattano con rispetto, Tamò. Nessuno lo dice, ma quando rotea il bastone, qualche volta succedono cose strane. Inspiegabili.
Una volta stava camminando nel vicolo e una macchina lo tampinava dietro dietro. Un po’ suonando e un po’ dando delle accellerate a vuoto cercava di spaventarlo, di farlo spostare. Tamò roteò il suo bastone e la macchina si fermò, lì in mezzo alla strada. Il proprietario scese e cercò di farla ripartire, senza successo. Non ci fu verso. Dovette arrivare il meccanico del paese e lavorarci per due ore. Una cosa mai vista, disse presentando il conto al malcapitato molestatore della quiete di Vico S. Vitale.
Chi aveva le finestre che si affacciavano su quel vicolo lo sapeva e non si azzardava a farlo arrabbiare. Sapeva a cosa andava incontro.
Una volta addirittura litigò con Tonino, che aveva l’alimentari dopo casa di Lucia, a metà del vicolo, forse per un debito non pagato. Il giorno dopo entrò in quell’alimentari e nel momento preciso in cui mise piede oltre la soglia tutta la luce e tutte le apparecchiature elettriche del locale si spensero.
Tonino andò per riaccendere la corrente dall’interruttore, pensando fosse saltato. Ma lo trovò attaccato.
Tutte le apparecchiature bruciate. Tutte le lampade anche.
Tutto successe quella mattina di Aprile. Arrivò un signore ben vestito, che attraversò tutto il vicolo a passo svelto. Giunse al portone di Teresa, la sorella di Tamò.
Bussò. Teresa aprì.
“Buongiorno Terè.”
“Buongiorno Nicolì. Trasite.”

Nicolino invece di entrare si appoggiò con la mano destra allo stipite della porta ed iniziò a respirare con affanno.
“Aspettate un poco, Terè. Stongo malamente.”
“Oh Gesummio, Nicolì! Concetta! Concè! Concè!”
Teresa uscì di corsa di casa e andò a bussare anche lei alla porta accanto.
“Che è? Si asciuta pazza, Terè?” Concetta si era affacciata dalla finestra accanto.
“Gesummio Concè! Nicolino sta malamente!”
“Uaneme, Nicolino! Che vi sentite?”

Il povero Nicolino si era quasi seduto per terra e aveva chiuso gli occhi, sperando che quel malore, come era arrivato, se ne andasse. Inutile dire che Vico S. Vitale si trasformò in pochi secondi in un formicaio. Chi porgeva un bicchiere d’acqua, chi strillava, chi provava a farlo camminare.
Tamò, nel frattempo proseguiva, per la verità senza troppi patemi d’animo, verso la fine del vicolo. Con il suo passo da maratoneta, a mano a mano si avvicinava a quel rumoroso crocchio. E cominciava a volgere lo sguardo verso Nicolino.
“Nicolino sta malamente! Gesummio!” urlò disperatamente Teresa, rivolgendosi a Tamò, che finalmente giunse nei pressi del malcapitato.
Si fermò. Si tolse la coppola e la fece cadere a terra, scoprendo il capo completamente calvo. Chiuse gli occhi e sorrise.
Poi alzò il suo bastone e lo roteò per aria. A quel gesto, tutti si ritrassero, temendo un cataclisma di dimensioni bibilche.
Invece Tamò abbassò il bastone e lo posò sulla pancia di Nicolino, per qualche secondo.
Il malato smise di respirare per qualche secondo, sgranando gli occhi.
“Gesummio! Nicoli’. L’hai acciso!”
Mentre tutti ricominciavano a strillare, più forte di prima verso Tamò, Nicolino cominciò a tossire.
Tutti si girarono nuovamente verso Nicolino, che aveva ripreso colore e si guardava intorno, probabilmente chiedendosi il motivo di tutto quel mercato.
“Tamò. Maronna ‘ro carmene. Ma che tenete? A bacchetta maggica?” chiese Giuseppe, mentre Teresa Gesummio aiutava il malato a rialzarsi.
Tamò sorrise. Sembrava volesse dire qualcosa. Invece infilzò la sua coppola con il bastone e se la rimise. Poi entrò nell’uscio.
“Ciao Tamò”.
Luigino passò lì vicino con la bici, veloce. E’ un bravo ragazzino, Luigino. Quando passa vicino a Tonino lo saluta sempre. Da quella volta che stava su un motorino assieme ad un suo amico e gli passò a fianco, urlandogli contro.
Tamò roteò il bastone e il motorino si spense. Per sempre.

* finalista al Premio Letterario Nemo 2008


Copyright Piero Mattei 2007