sabato 3 gennaio 2009

Margherita



Non li porto mai, gli spicci. Ma per venire da te, passavo almeno dieci minuti a scegliere accuratamente un paio di monete da uno, un paio da due, e così via. Un mucchietto di ferro che facevo scivolare in tasca tra le dita, durante la fila. Eh sì. La fila. Perché per venire da te si fa la fila, Margherita.
Io non vedevo l’ora di avere una bolletta da pagare, o dei soldi da prelevare, per mettermi disciplinatamente in coda e chiacchierare del tempo con quella donna che si lamentava dei dolori, o parlare del governo con quell’altro signore. Non mi importava aspettare. Il primo tuffo al cuore quando uscivo dalla curva e vedevo le impiegate allo sportello.
I capelli biondi, a caschetto. Gli occhiali leggeri, con la montatura rosa. Secondo me, già sospettavi qualcosa, se nel tempo che la fila si accorciava tra me e te, tu trovavi il tempo per essere gentile e sorridente con ogni cliente e mi lanciavi occhiate, rispondendo alle mie.
Quante volte ho ripetuto questa recita? Non lo so. Ogni volta la nostra conversazione si esauriva in poche battute.
- Ha dieci centesimi?
- Ora vedo. Ecco qua.
- Grazie. Molto gentile.
- Ma le pare.
- Buongiorno.
- Arrivederci.
Ogni volta che uscivo dall’ufficio postale sentivo il tuo sguardo sulla mia nuca, che mi chiedeva il motivo per cui non ti avevo fatto capire se la tua sensazione era vera, oppure no.
Ma io dovevo sciogliere un dubbio, prima di fare qualsiasi mossa.
E un giorno, mentre guardavo estasiato le tue mani curate e coperte da anelli appariscenti volare veloci sulla tastiera, ti ha chamato il direttore.
- Mi scusi un attimo – mi hai detto sorridendo.
- Nessun problema – ho risposto.
Ecco. Ora.
Una mossa atletica e sei scesa dalla sedia. Girati. Girati, ti prego.
E ho visto il tuo cucciolo, mentre con la mano delicatamente tiravi su i jeans, andando a coprire l’elastico del perizoma.
Penso di non aver respirato fino al tuo ritorno, dopo qualche minuto.
- Eccomi qua. Centoventicinque e trentasei. Ha trentasei centesimi?
- Ora vedo. Ecco qua.
Ho tirato fuori dalla tasca sinistra i trentasei centesimi e da quella destra il bigliettino che tenevo pronto da mesi. Ti ho passato gli spicci e poi, dopo qualche secondo, il foglietto a quadretti ripiegato.
Hai preso gli spicci e hai guardato il biglietto. L’hai aperto velocemente e lo hai richiuso nel palmo della mano.
- Grazie. Molto gentile.
- Ma le pare.
- Buongiorno.
- Arrivederci.
Tutto come sempre. Mi sarò sbagliato, ho pensato. Ma vuoi che una donna così, con quel mondo dietro abbia bisogno di essere rimorchiata allo sportello?
Invece, dopo qualche giorno, da un numero sconosciuto, mi è arrivato un messaggio che faceva così:
- Ciao. Sono Margherita e sono sposata. Sarà meglio che mi lasci stare.

Gli ho riposto al volo la prima cosa che mi è passata per la mente.

- Ciao. Sono Guido e sono sposato anche io. Credo anche io che sia meglio che ti lasci stare.

E così abbiamo iniziato a scambiarci messaggi, per settimane. Ogni messaggio più o meno parlava sempre del fatto che avremmo dovuto farla finita. Io ti rispondevo sempre subito, tu ci mettevi anche una settimana. E io aspettavo. Fremevo, ma non ti ho mai mandato un messaggio prima di una tua risposta. Poi un giorno ti ho scritto:

- Ma un pomeriggio libero, per vederci, ce l’hai?

Dieci minuti.

- Venerdì pomeriggio, dopo le tre.

Mi avevi detto che avevi una macchina rossa, che dava troppo nell’occhio. Così ti sei fatta prestare la macchina da tuo marito, una grande macchina grigia.
Ti ho aspettato per mezz’ora. Il tempo limite. Mi era già capitato che altre donne mi dessero buca, molte volte. Mi sono dovuto dare un tempo limite. E trenta minuti di ritardo si possono concedere. Anche se poi alla fine aspettavo almeno tre quarti d’ora, fino ad un ora oltre non ho mai aspettato.
Avevo anche un po’ sonno e mi sono assopito, ascoltando Miles Davis.
Poi ti ho visto bussare al vetro e ti ho aperto.

- Ciao Margherita.
- Ciao.

Ci siamo stretti la mano e ci siamo dati un bacio sulla guancia, come fanno i parenti. Ho messo in moto e mi sono diretto da qualche parte, non ricordo dove. Abbiamo cominciato a parlare del più e del meno, delle nostre famiglie, del lavoro. Dopo quasi un’ora ho fermato la macchina in un piazzale.

- Perché ti sei fermato? – mi hai chiesto con tono minaccioso.
- Scommetto che qualche idea in proposito ce l’hai – ho riposto.
- Ma che ti sei messo in testa? Riportami alla macchina!
- Senti, se sei arrivata a questo punto, penso che almeno un bacio me lo devi.

Mi hai guardato in silenzio, quel silenzio che sa di resa. Hai solo abbozzato un minimo tentativo di resistenza, giusto per salvare le apparenze, come insegnano le mamme.

- Va bene. Solo un bacio, però.

E come insegnano le mamme, non mettere la paglia accanto al fuoco, se non vuoi che scoppi un incendio. Il bacio si è presto tramutato in uno sbottonare di camicette e di jeans, in uno sdraiare di sedili. Mi sono staccato a fatica dalla tua bocca, per cominciare ad esplorare i tuoi seni ed i tuoi
fianchi.

- Girati. Ti prego.

E tu mi hai voltato le spalle, docilmente. E così l’ho visto.
Il tuo cucciolo, fasciato con una mutandina di pizzo nero. Ho preso tra pollice ed indice i tuoi fianchi e ti ho messa in ginocchio. Poi ho tolto la mascherina al cucciolo.
Lo ho misurato per qualche secondo con le mani. Una bella quarantaquattro, non abbondante. La pelle liscia. Ti ho dato un pizzicotto, per saggiare il tono muscolare.

- Ahi! Mi fai male!

Bene. I soldi per la palestra sono ben spesi, ho pensato.
Senza attendere oltre, ho affondato il viso in quella meraviglia, e tu hai singhiozzato dal piacere. La mia lingua ha indugiato a lungo, tra le due porte del paradiso.

Ad ogni affondo, un sospiro soffocato. Avrei continuato per tutta la vita ad assaporare il mosto di quella vite selvatica. Invece tu mi hai rimesso sui binari.

- Basta. Basta. Prendimi. Così, da dietro.

Pazienza. Mi sono tolto quel poco che rimaneva e mi sono messo in ginocchio dietro al cucciolo. Ho preso la tua collana colorata da dietro e ti ho tirata verso di me. Ed i tuoi singhiozzi si sono mischiati con le mie urla, mentre io ti cavalcavo a pelo, briglia in mano.
Alla fine sono rimasto con le mani e la bocca sul tuo cucciolo, mordendolo, baciandolo, schiaffeggiandolo.
Mentre facevamo ritorno, hai pianto. In silenzio, cercando di non farmi capire quanto ti sentissi colpevole per quello che avevi fatto.
Non ti ho vista più, all’ufficio postale. Ai messaggi neanche rispondi più.
Chissà cosa farai in questo momento. Forse stai chiacchierando con tuo marito, forse stai cucinando. Chissà dove sarà riposto il tuo cucciolo, su quale delicato cuscino sta facendo dondolare la tua burrosa figura.

giovedì 1 gennaio 2009

Grazie ancora Marco

Prima di fare un giro a vedere se qualcuno ha fatto, o farà, una recensione su "La macchina del capo", lascio qualche riga qui, per parlare dello spettacolo che è andato in onda questa sera su LA7.
Ancora una volta mi ha colpito quella capacità di raccontare delle storie che ci appartengono, che fanno risalire dal fondo della nostra memoria certe immagini, profumi, suoni, che pensavamo aver perso per sempre.
Ho riso e ho pianto. Uno spettacolo emozionante, come sempre.
Grazie Marco.
E grazie a LA7 (non è la RAI, come cantava qualcuno).
Ciao
Piero