martedì 16 ottobre 2007

Racconto - Nonno Maurizio ed il juke-box


Nonno Maurizio sta seduto nel suo scantinato in collina. In estate è l’unico posto dove un povero vecchio come lui riesce a sfuggire al caldo. Se ne sta spesso da solo, Maurizio. Le sue storie e i suoi ricordi ormai non interessano più a nessuno. Chi non mi vuole non mi merita, pensa. Solo un essere vivente ogni tanto scende a trovare Nonno Maurizio. Il nipote Gianmaria, un bimbetto di sei anni.
Gianmaria. Ogni volta che lo chiamava, Nonno Maurizio non poteva fare a meno di chiedersi che razza di nome aveva questo bambino. E come lui, tanti altri bambini avevano nomi altrettanto bizzarri.
Ma quei nomi semplici di una volta, Tommaso, Gianni, Marco, non li usa più nessuno?
Quel pomeriggio, Gianmaria sta giocando con uno di quegli aggeggi elettronici. Suoni, musichette sintetiche, rumori di pulsanti di plastica che si muovono continuamente.
L’arsura si fa sentire e Nonno Maurizio beve pigramente un sorso d’acqua. Poi chiude gli occhi, per goderne il fresco scorrere fino allo stomaco.
Dopo aver posato il bicchiere, Nonno Maurizio guarda in alto, sull’armadio dello scantinato, dove ci sono delle cose dimenticate da tempo. Il suo occhio si posa su uno di quegli attrezzi che usava anche lui quando andava al mare da bambino. Un secchiello verde. A fianco c’è una paletta dello stesso colore. Che strano. Ora che ci pensa, Maurizio non riesce più a ricordare da quando non vede più un bimbo giocare con paletta e secchiello.
A fatica, si alza dalla sedia e, a piccoli passi, si avvicina all’armadio. Prende il secchiello e istintivamente ne guarda il contenuto.
Con sua grande sorpresa, scorge sul fondo della sabbia. Lo avvicina al viso e fa un respiro profondo, per sentire l’odore del mare. Ma nel secchiello quell’odore non esiste più da tempo, anche se a lui pare di sentirlo.
“Cos’è quello, nonno?”
Gianmaria guarda Nonno Maurizio con gli occhi pieni di curiosità. Poi si alza e si avvicina.
“Lo senti?” fa Nonno Maurizio a Gianmaria, avvicinando il secchiello al viso del bambino. “Lo senti l’odore del mare?”
Gianmaria inspira l’aria. Poi fa spallucce. “Io non sento proprio niente, nonno” e guarda il nonno con aria interrogativa.
Già. Non si sente nessun odore. Nonno Maurizio dovette ammetterlo anche a sé stesso.
“E poi il mare puzza, non odora”. Gianmaria chiude il discorso, risedendosi a giocare con il suo odioso congegno in mano.
Anche Maurizio si risiede. Come un cercatore d’oro, gira e rigira quel secchiello in mano, facendo scorrere quel milligrammo di sabbia sul fondo tondeggiante. Poi ne prende un pizzico tra il pollice e l’indice e rotea i polpastrelli, per sentirne le consistenza. Quella sabbia l’avrebbe riconosciuta anche senza vederla, solo a sentirne lo scorrere leggero tra le dita. Sicuramente quella era la sabbia della spiaggia di Sabaudia.
Su quella spiaggia, Maurizio ci era sempre andato. Quando era piccolo, assieme al fratello, al papà e alla mamma. Di quella sabbia ne aveva vista tanta.
Giocare con quella sabbia era la cosa più bella che un bambino avesse potuto desiderare. E l’estate, su quella spiaggia spesso c’era anche papà. Le buche fino a trovare l’acqua, che papà faceva cosi’ profonde che Maurizio c’entrava in piedi. E i castelli, che il mare si divertiva a spianare appena finiti.
Gli anni erano passati, scanditi dai ricordi legati a quella spiaggia, anno dopo anno. Fino all’estate più bella della sua vita.
Quella scintillante estate del millenovecentoottanta. Un'estate dalle giornate infinite, iniziate tardi, con un ciao mamma vado al mare. La bicicletta da donna e l'asciugamano sulla sella.
Al chioschetto del campeggio, c’era un juke-box. Appena arrivati, prima di scendere in spiaggia, Maurizio ed i suoi amici compivano il rito propiziatorio del primo disco della giornata. Quando la scelta toccava a Maurizio, la giornata iniziava sempre con la maestosa voce di Sting, che raccontava di un messaggio in bottiglia. Ci sarebbe potuta essere una scelta migliore?
La spiaggia di Sabaudia. Diciotto chilometri di sabbia, a destra il mare e a sinistra il lago. In fondo un enorme promontorio color smeraldo che piomba su mare, spiaggia e lago. Il Circeo. Una cosa sconvolgente. E' come se qualcuno avesse deciso di piazzare un enorme masso, qualcosa di completamente estraneo al paesaggio, per farlo contemplare dalla battigia.
Gli asciugamani a disegnare due porte: a quanto arriviamo? a dieci? Va bene. Poi, a dieci, qualcuno immancabilmente urlava "Recupero! Recupero!". Poi Tommaso prendeva un secchio e cominciava a fare gavettoni.
Un gelato all'ombra per finire la giornata. E il martellante attacco di batteria di "My sharona" cominciava a far dondolare le teste.
"Qualche volta andiamo a Punta Rossa in bici?", chiedeva sempre Maurizio, guardando il Circeo. "Ma sei matto? E chi ce la fa?" era il coro di risposta.
Prima che tutti inforcassero le bici per tornare a casa, l’ultimo disco della giornata spesso era la canzone logica dei Supertramp, cantata in quel modo inarrivabile. "Oh ragazzi, ci facciamo una doccia e ci vediamo alla base dopo cena".
Che serate. Senza una lira.
"Forza, svuotate le tasche, che servono le sigarette!"
"No, passa dritto qua, non ho niente."
"Ma dai, sei sempre il solito pidocchio."
Alla fine, non si sa come, Gianni riusciva a comprare le sigarette. "Queste sono per dopo!". Peccato che venti sigarette, erano due giri. Ma c'erano le bici, e il dopo era il campeggio.
Ma quanto erano belle, le ragazze di Roma? Simpatiche e spontanee. E poi parlavano, parlavano, ridevano. Non ti saresti mai stancato di stare con loro. E ce ne era una che solo il nome già ti stendeva. Il giorno che l’ha conosciuta Maurizio l'ha guardata e ha sentito quegli occhi verdi penetrarlo da parte a parte.
"Ciao, io sono Elena".
Ha fatto un passo indietro, Maurizio, per non essere sopraffatto da tanta bellezza. Non aveva mai conosciuto una ragazza con un nome così bello e austero. Elena.
Gli altri dicevano che quella Elena era un po’ svitata, che parlava sempre di libri, che raccontava di strane storie sul mare e sull’amore. “Mamma mia, che palle” sentenziava Gianni.
Solo Maurizio aveva capito che quegli occhi verdi aspettavano solo qualcuno da guardare e quelle storie cercavano solo qualcuno che le ascoltasse.
Passava delle ore a parlare con lei e non importava cosa dicesse, l'importante era che lo guardasse negli occhi. Lui era uno studentello di un istituto tecnico, mentre lei studiava lettere antiche all'università. Tommaso si divertiva a chiamarlo continuamente, cercando di allontanarlo da lei: “Maurizio, facciamoci una partita a biliardino!” “Dai Maurizio, che c’è una che ti vuole conoscere!”
Ma lui niente. Non avrebbe mollato Elena neanche se lo avessero portato via di forza.
"Si chiude!!! Fuori gli estranei!!"
“Le undici e mezza! Già?” Maurizio ogni sera, sgranava gli occhi e faceva sempre la stessa domanda ad Elena, che si faceva una risata di cuore, come solo lei sapeva fare.
Poi, con la sua mano piccola e affusolata, lei gli dava una carezza sui capelli ricci.
Peppino, il custode del campeggio era inflessibile. Tutti fuori. "Ciao Elena a domani." E lei gli dava la buonanotte con un bacio sulla guancia. Dopo quello sarebbe potuto arrivare a Rimini, con la sua bici da donna.
Ma bastava arrivare alla base. E’ presto, che si fa? "Facciamo una partitella!" E si facevano le due, le tre. Un profumo di pane e di pizza cominciava ad uscire dal forno di Cesare. "Dai Cesare, facci un testo di pizza, dai, Cesare, dai…". Cesare li adorava, era come se fossero figli suoi, lui non ne aveva. E che cosa era quella pizza alle tre e mezza del mattino, con quella fame.
Maurizio aveva quindici anni. Ogni sera alle dieci precise andava al chioschetto del campeggio assieme ad Elena ed infilava cinquanta lire nel juke-box. Come il comandante di una flotta immaginaria impegnata in una battaglia navale, Maurizio guardava la sua bella negli occhi e dettava le coordinate per colpire.
K…6!
"E guardo il mondo da un oblo'...".
A Maurizio piaceva Gianni Togni. Anche ad Elena, colpita al cuore e affondata ogni sera da quei versi. Nella ruota del juke-box c'erano tanti dischi, ma quella canzone sarebbe rimasta nella sua memoria a ricordare quei mesi bellissimi e spensierati.
Una lacrima trascina via la vista di quel piccolo pezzo di spiaggia. Prima che un singhiozzo gli tolga il respiro, Nonno Maurizio si alza e va alla finestra, per non farsi vedere.
Sereno. E’ ormai la quarta estate che non piove. Le colline sono tutte riarse dal sole e dagli incendi. Ogni primavera, un nuovo residence prende il posto di un prato, o di un bosco.
È pomeriggio e si è alzata la solita brezza. Dal fondo della valle arriva un odore forte, di pesce marcio. La puzza di mare, come la chiama Gianmaria.
Oltre le colline, il promontorio del Circeo si vede appena. Una piccola isola. La spiaggia è stata ingoiata dal mare quattro anni fa, così tutti i campeggi ed i paesi della costa. Gli abitanti si sono rifugiati in collina.
Il mare fa paura, ora.
“Perché piangi, nonno?”
“Hai ragione tu Gianmaria”, dice Nonno Maurizio tra le lacrime.
“Il mare puzza. Ora.”
Nonno Maurizio si risiede. Ma di staccare lo sguardo dalla finestra non se ne parla. Chissà dove sarà ora Tommaso, che faceva i gavettoni. E dove sarà Gianni, che si inventava i soldi per le sigarette.
Ed Elena? Dove sarà ora Elena?
Il comandante Maurizio chiude gli occhi. Infila cinquanta lire nel juke-box della sua memoria.
Poi riarma la sua flotta immaginaria.
Per colpire ancora.
Per provare a suonare ancora quella canzone di un milione di anni fa.
K…6!
Bel colpo, comandante.
“E guardo il mondo da un oblò…”


Copyright Piero Mattei 2007


Luna-Gianni Togni



Police - Message in a bottle



The Knack - My Sharona



Supertramp - The logical song

domenica 14 ottobre 2007

Racconto - La lisca


“Signora, guarda che stoffe! Signoraaaa!”.
Quando Vito Cammarata vendeva le sue stoffe era imbattibile. Con il suo carretto girava casa per casa, mercato per mercato e il suo urlo oramai lo riconoscevano tutti. Dopo un paio di “Signoraaaa” il suo carretto era attorniato da donne che cercavano questa o quella stoffa, per confezionarsi il proprio vestito.
Vito aveva cinque figli maschi, uno più bello dell’altro: Tonino, Carmelo, Rosario, Nunzio e Giuseppe. La signora Rosaria aveva il suo daffare, a tenerli a bada… ma quanta fame soffrivano i ragazzi. Era l’Italia del 1950, certi giorni la signora Rosaria mandava i pargoli al pascolo in campagna, a sfamarsi con quello che trovavano.
Tonino era un asso nel catturare qualsiasi essere vivente commestibile e gli altri facevano tabula rasa di piselli, zucchine, pomodori e quant’altro potesse offrire la campagna. Ma che fame… i fratelli Cammarata sono cresciuti portandosi dietro una fame inestinguibile, come se qualsiasi cosa non fosse abbastanza per togliere loro questa sensazione. Sono diventati grandi e, seguendo le orme di Vito, sono diventati tutti commercianti di stoffe, con il pallino degli affari e del mercanteggiare.
Rosario ha messo anche un banco al mercato, per continuare la tradizione di famiglia. Se la passano bene economicamente, i fratelli Cammarata. Ma quella fame non li abbandona mai. Tant’è che uno di loro, Carmelo, ha messo su un ristorante, “Il carretto”, per dare sfogo alla propria passione per la cucina e per il cibo. Carmelo è un cuoco nato. Sa associare e cucinare gli ingredienti più disparati, creando dei piatti incommensurabili.
Da quando il ristorante è stato inaugurato, ogni mercoledi’ sera, quando c’è il giorno di chiusura, i fratelli Cammarata si riuniscono e si concedono delle cene inimmaginabili. Questo era diventato il loro modo per placare quella fame che si portavano dietro. Ovviamente, non si risparmiavano in niente.
Piano piano, vuoi l’età, vuoi le abbondanti libagioni, prima Carmelo, poi Rosario e via via gli altri fratelli sono stati messi alle strette dal dottore. “Basta con le cene infinite, se non volete finire tutti col diabete”. Che sfortuna. Ora che avrebbero potuto mangiare qualsiasi cosa, non si sarebbero potuti mangiare quasi più nulla. Cosi’ il rito della cena del mercoledi’ era diventato una specie di cena dei ricordi, a base di verdure lesse, pesce lesso e acqua minerale. Carmelo addirittura si rifiutava di cucinare quella roba e aveva incaricato un giovane cuoco, Roberto, per la preparazione di quello che rimaneva della cena del mercoledi’.
Una volta però successe qualcosa. I fratelli erano seduti attorno al tavolo, che fissavano tristi una lisca di spigola lessa, appena coperta da un ciuffetto di bieda… improvvisamente, Carmelo si alzò di scatto, come indemoniato: “Robertoooo!” “Che c’è?” Roberto stava sistemando la cucina e usci’ di corsa a quell’urlo. “Senti, guagliò” gli fece Carmelo, prendendo con due mani il piatto da portata con la lisca della spigola e dandolo al cuoco , “prendi questa, poi la metti in una padella grande con un po’ d’aglio, poi ci spremi tre quattro pomodorini. Poi prendi un pacco di spaghetti del cinque, poi li cuoci e li ripassi qua…”
Carmelo muoveva le mani come se avesse la padella in mano. ”Poi ci porti due litri di bianco. Fresco. E vaffanculo al dottore e alla dieta!” Un urlo da stadio scosse il ristorante “Il Carretto”. Cosi’, da quella sera, durante la cena del mercoledi’, i fratelli Cammarata qualche volta conservano la lisca del pesce lesso fino alla fine, non si sa mai…

Racconto - Cinquanta lire


Mettetevi comodi, voglio raccontarvi una storia.
Una storia di giornate passate sulla spiaggia di un campeggio. Un'estate dalle giornate infinite, iniziate tardi, con un ciao mamma vado al mare. La bicicletta da donna e l'asciugamano sulla sella.
Al chioschetto del campeggio la maestosa voce di Sting che parlava di un messaggio in bottiglia. Che giornate, sulla spiaggia di Sabaudia.Diciotto chilometri di sabbia, a destra il mare e a sinistra il lago. In fondo un enorme promontorio verde che piomba su mare, spiaggia e lago. Il Circeo. Una cosa sconvolgente. E' come se qualcuno avesse deciso di piazzare un enorme masso, qualcosa di completamente estraneo al paesaggio, per farlo contemplare dalla spiaggia.
Gli asciugamani a disegnare due porte: a quanto arriviamo? a dieci? Va bene. Poi, a dieci, qualcuno immancabilmente urlava "Recupero! Recupero!". Poi Tommaso prendeva un secchio e cominciava a fare gavettoni. Un gelato all'ombra, per finire la giornata di mare, mentre l'attacco di batteria di "My sharona" cominciava a far dondolare le teste.
"Qualche volta andiamo a Punta Rossa in bici?", chiedeva sempre Maurizio, guardando il Circeo. "Ma sei matto? E chi ce la fa?" era il coro di risposta. Mentre tutti inforcavano le bici, i Supertramp cantavano la loro canzone logica. "Oh ragazzi, ci facciamo una doccia e ci vediamo alla base dopo cena". Che serate. Senza una lira. "Ragazzi, svuotate le tasche, che servono le sigarette!" "No, passa dritto qua, non ho niente." "Ma dai, sei sempre il solito spilorcio." Alla fine, non si sa come, Gianni riusciva a comprare le sigarette. "Queste sono per dopo!". Peccato che venti sigarette, erano due giri. Ma c'erano le bici, e il dopo era il campeggio.
Ma quanto sono belle, le ragazze di Roma? Sono simpatiche e spigliate e poi parlano, parlano, ridono. Non ti stancheresti mai di stare con loro. A te chi piace? A me quella con i capelli ricci. E ce ne era una che solo il nome già ti stendeva. Il giorno che è arrivata Maurizio l'ha guardata e ha sentito quegli occhi verdi trapassarlo da parte a parte. "Ciao, io sono Elena".
Ha fatto un passo indietro, Maurizio, per non essere sopraffatto da tanta bellezza. Non aveva mai conosciuto una ragazza con un nome così bello e austero. Elena. Passava delle ore a parlare con lei e non gli importava cosa dicesse, l'importante era che lo guardasse negli occhi. Lui era uno studentello di un istituto tecnico, mentre lei studiava lettere antiche all'università. E come arrivavano presto le undici e mezza.
"Si chiude!!! Fuori gli estranei!!" Peppino, il custode del campeggio era inflessibile. Tutti fuori. "Ciao Elena a domani." E lei gli dava la buonanotte con un bacio sulla guancia. Dopo quello sarebbe potuto arrivare a Rimini, con la sua bici da donna.
Ma bastava arrivare alla base. E’ presto, che si fa? "Facciamo una partitella!" E si facevano le due, le tre. Un profumo di pane e di pizza cominciava ad uscire dal forno di Cesare. "Dai Cesare, facci un testo di pizza, dai, Cesare, dai…". Cesare li adorava, era come se fossero figli suoi, lui non ne aveva. E che cosa era quella pizza alle tre e mezza del mattino, con quella fame.
E che cosa era quella splendida estate del millenovecentoottanta? Come ci penso, ora che faccio la muffa in uno scantinato. Maurizio aveva quindici anni e ogni sera alle dieci veniva da me, al chioschetto del campeggio, infilandomi cinquanta lire. K...6! "E guardo il mondo da un oblo'...". A Maurizio piaceva Gianni Togni. Anche ad Elena. E anche a me. Nella mia ruota c'erano tanti dischi, ma quella estate era quello il mio preferito.

Racconto - Il mare puzza


Nonno Maurizio beve lentamente un sorso d’acqua e poi chiude gli occhi, per goderne il fresco scorrere fino allo stomaco.
Gianmaria gioca con uno di quegli aggeggi. Suoni, rumori di pulsanti che si muovono continuamente. Gianmaria. Ma che razza di nomi danno a questi bambini…
In alto, sull’armadio dello scantinato, Maurizio tiene i suoi ricordi più cari. C’è ancora uno di quegli attrezzi che usava lui quando andava al mare da bambino. Un secchiello verde. A fianco, una paletta dello stesso colore.
A fatica, si alza dalla sedia e, a piccoli passi si avvicina all’armadio. Nel secchiello c’e ancora della sabbia. Lo avvicina al viso e fa un respiro profondo. L’odore del mare non c’è più, ma a lui sembra ancora di sentirlo.
“Cos’è quello, nonno?”
Gianmaria guarda Nonno Maurizio con gli occhi pieni di curiosità. Poi si alza e si avvicina.
“Lo senti?” fa Nonno Maurizio a Gianmaria, avvicinando il secchiello al viso del bambino. “Lo senti l’odore del mare?”
Gianmaria inspira l’aria. Poi fa spallucce. “Io non sento proprio niente, nonno” e guarda il nonno con aria interrogativa.
Già. Non si sente nessun odore. Il nonno dovette ammetterlo anche a sé stesso.
“E poi il mare puzza, non odora”. Gianmaria chiude il discorso, risedendosi a giocare con il suo odioso congegno in mano.
Anche Maurizio si risiede. Come un cercatore d’oro, gira e rigira quel secchiello in mano, facendo scorrere quel milligrammo di sabbia sul fondo tondeggiante. E tornano nella sua mente le giornate passate sulla spiaggia, a fare buche e castelli, a sporcarsi di sabbia per poi potersi fare il bagno.
E poi giornate infinite, passate su una spiaggia ascoltando un juke-box. Ed Elena, che studiava lettere antiche.
Una lacrima distorce la vista di quel piccolo pezzo di spiaggia. Si alza e va alla finestra, per non farsi vedere.
Sereno. E’ ormai la quarta estate che non piove. Le colline sono tutte riarse dal sole e dagli incendi. Ogni primavera, un nuovo residence prende il posto di un prato, o di un bosco.
Maurizio apre la finestra. È pomeriggio e si è alzata la solita brezza. Dal fondo della valle arriva un odore forte, di pesce marcio. La puzza di mare, come la chiama Gianmaria.
Allunga lo sguardo oltre le colline. Il promontorio del Circeo si vede appena. La spiaggia è stata ingoiata dal mare quattro anni prima, così tutti i campeggi ed i paesi della costa. Gli abitanti si sono rifugiati in collina.
Il mare fa paura, ora.
“Perché piangi, nonno?”
“Hai ragione tu Gianmaria”, dice Maurizio tra le lacrime.
“Il mare puzza. Ora.”
Maurizio si risiede. Ma di staccare lo sguardo dalla finestra non se ne parla. E gli pare di risentire una canzone di un milione di anni prima, suonata da un juke-box.
“E guardo il mondo da un oblò…”

Racconto - Chiaretta




“Ma te la ricordi Chiaretta, la figlia di Claudio?”
“Ma che scherzi? Guarda, io la conosco da quando è piccola. Avevo forse quindici anni e andavo sempre al bar da Claudio, il pomeriggio dopo i compiti e c’era questa bambina stupenda di due anni, con gli occhi grandi e i capelli neri. Già parlava come una radio, diceva di tutto…”
“E’ vero, me la ricordo anche io…”
“Ma guarda, ti dico, uno spasso. Una volta ha cominciato a strillare MAIALE!!! MAIALE!!! allo zio, che, diciamolo francamente, un maiale lo sembrava proprio…”
“Un bue, più che un maiale, direi… ma tu non l’hai più vista?”
“Come no?” l’ho rivista che avrà avuto dieci anni, assieme a Claudio. L’ho chiamata, lei si è girata e mi ha guardato con aria indagatoria… poi Claudio le ha spiegato che per me lei era il mio giocattolo preferito, che passavo i pomeriggi senza studiare a giocare con lei… meglio di una baby-sitter! Lei a quel punto mi ha fatto un sorriso dei suoi… è stata una bella senzazione…”
“Io anche l’ho rivista…”
“Aspetta… io pure, ora che ci penso è stato un paio di anni fa. Sono andato con mia moglie a ballare la salsa, in un locale al lungomare. Ci sediamo a sorseggiare un po’ di ruhm e ho dato un’occhiata distratta sulla pista. C’era una coppia di ragazzi che ballava in una maniera strepitosa, un ragazzo in canottiera abbronzantissimo e una ragazza con una minigonna e dei lunghissimi capelli neri, con una faccia familiare… Chiaretta! No! Impossibile, ma guarda che ragazza stupenda che è diventata. Devo andarla a salutare assolutamente. Dopo aver litigato con mia moglie che avrebbe voluto ballare subito, aspetto la fine della canzone e vado da lei. Le batto la mano sulla spalla e lei si gira. Chiaretta, ciao!! Ti ricordi di me? Oddio, fa lei, Chiaretta non mi chiama più nessuno da un bel po’ di anni… chi sei? Eh sapessi, le faccio io, sono Roberto, il tuo baby-sitter quando avevi due anni… Ciaoooooo!! Come stai??? Mi fa lei, illuminando il mio sguardo con un sorriso dei suoi. Non mi dire che ti piace la salsa? Si, ma sono ancora alle prime armi… dai balliamo!!!, mi fa lei… ma no, dai,le faccio io… sai, dopo averla vista ballare… ma dai, se un po’ sei capace, non siamo mica ad una gara… intanto l’orchestra cubana era partita in con un altro pezzo trascinante e Chiara mi ha portato di forza in pista, non ti dico quanto mi sono divertito e quanto ho poi litigato con mia moglie…”
“E ci credo. Che avresti detto tu, al posto di tua moglie?”
“Bè non posso darli torto… ma tu piuttosto l’hai più rivista?”
“Eh si, anzi l’ho rivista recentemente…”
“Davvero? E dove”
“Guarda, stavo andando a trovare un amico e l’ho incontrata per strada… hai ragione tu, lei ha un sorriso veramente bellissimo… quando l’ho vista mi sono fermato, ho preso una rosa che avevo preso per il mio amico e l’ho messa nel vaso sotto la sua foto… ora so dove trovarla, la prossima volta…”

giovedì 11 ottobre 2007

Racconto - Io aspetto





Questo è un incubo.
Questo fu il mio primo pensiero, entrando in quella camera. Davanti a me un mucchio di fasciature e di cerotti. Un viso deturpato. Una gamba massacrata.
Un incidente. Ma come un incidente? Un camionista come te? Anzi, tu guidi un furgone. Un furgonista. Si dice cosi’?
Ma come era potuto succedere? Tu non ricordavi nulla.
La polizia ha detto che ti sei infilato sotto un camion, fermo al semaforo. Ci sono volute ore di lavoro da parte dei vigili, per aprire quella macchinetta accartocciata e tirarti fuori.
Questo era niente. Vicino a te, il solito grugno di mamma. Che sembrava urlarti lo sapevo, te lo avevo detto che finivi male, sempre in giro la notte. Sai come sono le mamme.
Mi hai cercato con gli occhi. Il trauma ti impediva di indirizzare lo sguardo di entrambi gli occhi nella stessa direzione. Eri diventato strabico!
Un sorriso, appena percettibile sotto i cerotti. Poi hai alzato la mano, per darmi il benvenuto. E un colpo al cuore.
Tutto finito. Le serate con Stefano, le giornate di fatica con Simone. Avevi improvvisamente bisogno di tante cure.
E non potevi più camminare.
L'ospedale è diventato la mia seconda casa. Una domenica pomeriggio sono rimasto a vedere le partite in ospedale con te. Era l’ultima di campionato.
La tua squadra vinse lo scudetto, strappandolo alla sua rivale, che perse giocando in un pantano.
I dottori decisero che la prima cosa da fare sarebbe stata l'intervento al viso. Un bel lavoro, disse qualcuno, mettendo a posto perfino delle imperfezioni che avevi già prima dell'incidente. Ricordi di scambi di opinione un po' vivaci.
Cosi' hai ripreso coraggio e ti sei guardato nuovamente allo specchio, per la prima volta dopo l'incidente.
Un giorno i tuoi occhi hanno ricominciato a guardare dalla stessa parte. Qualcuno, per questo, ringraziò Padre Pio.
Tornato a casa, di tanti amici che avevi prima dell’incidente, te ne erano rimasti due o tre. Stefano, Simone, il Principe.
E’ difficile pensare di frequentare una persona che si muove a fatica dal letto. Non è che mi tocca anche scarrozzarla, alzarla per metterla in macchina.
No. Meglio di no. In fondo non eravamo neanche tanto amici.
In quel periodo ho preso l’abitudine di venirti a trovare spesso durante la settimana e sempre la domenica. Mangiavamo tutti insieme nella tua camera da letto, per non farti muovere.
Terapie. E’ solo un problema di nervi. Il dottore dell’ospedale era sicurissimo. Ma tu sentivi che comunque c’era dell’altro. Il piede non voleva saperne di assecondarti.
Giugno, Luglio. Terapie. Tutta l’estate. Tutto l’anno.
Qualche volta passavo davanti alla tua camera e ti spiavo. Seduto sul letto, con la testa tra le mani. Chissà quanta altra gente, al posto mio, avrebbe trovato sicuramente qualcosa da dirti. Una cosa qualsiasi.
Ma non io. Non ero pronto. Non sono mai pronto per queste cose. Mi è mancato il coraggio. Come sempre.
O non ne sono proprio capace. Che ne so. Qualcuno mi dovrà spiegare come si fa, prima o poi.
La sera di San Silvestro, ti sei messo in tiro. Vestito elegante, sbarbato, profumato. Ti sei seduto ad aspettare che chi te lo aveva promesso ti venisse a prendere per uscire. A mezzanotte ti sei spogliato e ti sei rimesso a letto.
Terapie. Progressi prossimi allo zero. Forse era il caso di provare anche altre strade. Ma mamma e papà non ne volevano sapere.
A Marzo, dopo mesi di discussioni, finalmente provammo qualcosa di diverso. A Bologna, al Rizzoli.
La clinica è su una collina, in periferia. Ed ecco che qualcuno ti indicò la via di uscita. Un intervento al bacino e alla testa del femore. Poi avresti potuto ricominciare le terapie. Il nervo non sarebbe mai stato recuperato del tutto. Camminare però si. Si poteva tornare a camminare.
L’operazione si fece e andò tutto bene. Ti sono venuto a trovare a Bologna. E’ sempre una città bellissima. E finalmente ho rivisto un sorriso. Ho cominciato a crederci.
Un’altra clinica specializzata, sprofondata nel verde del Circeo. La nostra nuova casa. E divenne tanto casa anche questa che il piccolo prese a chiamarla "la montagna dei fiori".
Tutta l’estate e tutto l’autunno. Terapie su terapie. Le cose migliorano. La domenica ti passavo a prendere e andavamo tutti assieme a pranzo da mamma.
Dopo qualche mese, hai cominciato a camminare da solo. Con le stampelle, ma da solo. Non avresti mai potuto guidare un auto normale, ma una con i comandi invertiti si. Cosi' ne hai trovato una.
Eri quasi tornato quello di prima. Ti mancava un lavoro. Ero in vacanza, quando mi arriva un messaggio sul telefono:
“Benzinaio. Da oggi.”
Un lavoro spossante. Stare in piedi ti pesava parecchio. Dopo due anni di inattività alla fine della giornata eri stanchissimo.
Poi hai trovato un lavoro migliore. In una fabbrica.
Sono passati altri tre anni. A quell’incidente ora penso di meno. So che tu invece ci pensi tutti i giorni.
Stefano e Simone nel frattempo sono andati. Un atroce rappresaglia del destino. Due incidenti stradali. Tutti e due con la moto. Hai mai pensato a questo?
Ci penso sempre, quando ci sediamo intorno a un tavolo e litighiamo parlando di politica.
Quando stai fino a notte fonda a casa mia per sfogarti.
Quando mi dici “Tu dici sempre…”.
Accidenti! Ma che dico sempre io? Dico forse cose memorabili? Io neanche me lo ricordo. Devo pensare di più a quello che dico.
L’abitudine di venire a pranzo da mamma la domenica è rimasta. Ormai non mi sembra neanche domenica, se non vengo.
Dopo tutto questo tempo, ho capito che non c’è nulla di impossibile. Con un po' più di immaginazione, avrei potuto capirlo anche quella domenica pomeriggio, quando la Lazio vinse lo scudetto.
Che si può perdere uno scudetto per una pioggia torrenziale.
Che si può morire in un minuto, per strada, per un’insulsa disattenzione, guidando.
Oppure vincere un campionato aspettando due ore dentro lo stadio la fine di un’altra partita.
Oppure rinascere e combattere anni contro il destino, per ritornare in corsa e battersi come gli altri.
C’è ancora una cosa. Una cosa che mi fa impazzire.
Come è andato l’incidente non l’ho ancora capito.
Me lo spiegherai tu.
Quando vuoi.
Io aspetto.





Copyright Piero Mattei 2007

martedì 9 ottobre 2007

Racconto - Gino il finanziere


Gino il finanziere non è uno di poche parole. Anzi, tutt’altro. Sa sempre cosa è meglio e cosa è peggio. Se gli chiedi un consiglio è tutto un lascia stare, te lo dico io cosa fare, dai retta a me, ma che cazzo ne sa quello, non ti preoccupare, ecc.
Sui quaranta, corporatura esile, sguardo serio, cappello sempre ben schiacciato sulla fronte e divisa sempre in ordine. Sul lavoro e’ il terrore dei commercianti, che sanno bene cosa significa vedere quella faccia entrare nel proprio negozio, magari accompagnato da un cliente appena uscito senza scontrino. Inflessibile. E’ questa la parola con la quale si definisce un tutore della legge fanatico come lui. Un bastardo. Cosi’ lo chiamano tutti.
Si narra che una volta, in un negozio, il figlio del titolare gli ha mostrato il proprio tesserino. “Dai, io sono carabiniere, collega...”. “Ho chiesto il registro dei corrispettivi, non il tesserino” è stata la raggelante risposta.
Per non parlare di quello che è successo quando si è installato in qualche azienda per mesi, leggendo documenti, facendo riscontri, verificando bilanci, fino a che la lista delle infrazioni al codice fosse abbastanza lunga per presentare il conto. Inflessibile.
E’ talmente inflessibile da risultare antipatico anche ai suoi stessi colleghi, con il suo voler sempre spiegare il perchè ed il per come di ogni cosa, i suoi io lo sapevo che dovevi dare retta a me, io ci sono stato, io ci ho lavorato, ecc. Ormai solo il suo amico Emanuele lo sopporta. Un po’ perchè si frequentano dalle elementari, un po’ perchè Emanuele è una di quelle persone pazienti, votate al sacrificio, che se hanno un amico se lo tengono stretto, a qualsiasi costo. Cosi’ a mensa, al loro tavolo, ci sono sempre solo loro due, lui ed Emanuele.
Una sera, lui ed Emanuele vanno a mangiare una pizza, con un vecchio amico, Peppe. Seduti al tavolo, una birra dopo l’altra, anche gli argomenti si fanno più leggeri. Cosi Emanuele si informa sulle ultime notizie dal mondo della musica da Peppe.
· “Peppe, tu che sei un cultore, che musica ascolti ultimamente?”
· “Mah, ti dirò... ascolto molto i miei vecchi dischi. Purtroppo costano un po’ i CD. Non è che me li posso comprare spesso. Venti euro sono venti euro!”
· “Venti euro?” fa Gino. “Ma sei scemo? Ma che te li compri i CD? Ma ancora c’è gente che compra i CD?”
· “Perche’, a te li regalano i CD? Oppure hai qualche sconto divisa color salvia?”
· “Ma che? Ma lascia stare. Ma oggi tutti scaricano la musica da Internet. Ma chi li compra i CD? Ma chi li spende tutti quei soldi?”
· “Io, per esempio.”
· “Ma che fesso che sei. C’hai pure l’ADSL a casa, scaricati la musica che è gratis. Ti affogherai di musica! Ma lascia stare...”
· “Io le cose le voglio comprare. E i musicisti li voglio pagare. Se facessero tutti come te, nessuno suonerebbe più. Non credi?”
· “Ma che dici? Ma quelli sono ladri. Venti euro! Ladri! Come tutti! Questo è un mondo pieno di ladri. Non mi fregano. Li frego io!”
· “Cosi’ rubi anche tu!”
· “Io rubo. E certo che rubo. Qua rubano tutti. Perchè, tu non rubi?”
· “Tu parla per te”.


Copyright Piero Mattei 2007

lunedì 8 ottobre 2007

Racconto - Fuoco incrociato


Un coltello. Una pistola a canna corta con tre colpi.
Questo è quello che resta a Mike. Nient’altro. Pensare. Bisogna pensare. La via d’uscita esiste. Ma esiste?
Mike si guarda intorno. Il capannone abbandonato è enorme, piano di carcasse arrugginite. Dai finestroni in alto non filtra nessuna luce. Oramai sono quattro giorni che scappa. La fame ed il freddo cominciano a farsi sentire. La sua ora di vantaggio è quasi finita. Tra poco saranno qui. Loro vanno a caccia sempre in due. E’ più sicuro. Se uno non ce la dovesse fare, ci pensa l’altro a finire il lavoro.
Si tocca il fianco. Ha una ferita da taglio, non profonda. E’ seduto in un angolo scuro del capannone, da dove riesce a tenere sotto controllo tutti gli ingressi. Improvvisamente, un fascio di luce filtra dai vetri dei finestroni. “Andiamo a dare un’occhiata”, si sente una voce dall’esterno. I passi si fanno sempre più vicini. Un calcio spalanca una delle porte del capannone. Due torce si fanno largo nel buio fitto.
Mike trattiene il respiro.
“C’è qualcosa qui.”
“Cosa?”
“Un giubbotto insanguinato.”
Le due torce si avvicinano e dirigono la luce nella stessa direzione. “Si, è il suo. E ha anche una bella ferita”, dice uno dei due.
Nel frattempo, Mike si è trascinato nel punto dal quale può vedere la scena. Non ha molto tempo. E’ un buon tiratore, ma al buio ha poche possibilità di colpirli entrambi. Decide di aspettare. Si arrampica su una carcassa e si accovaccia.
“Mike, vieni fuori. Il gioco è finito. Hai perso.”
Si, ho perso? Venite a prendermi, pensa.
“Ah, non ne hai abbastanza? Non ti preoccupare. Ti troviamo e ti facciamo la festa!”
Le due luci si separano. Per un attimo Mike le perde di vista entrambi. Poi sente i passi lenti degli anfibi sul cemento. Abbassa la testa più che può. Vede la luce camminare per terra. Vieni bello, vieni.
La luce si alza di scatto verso di lui. Una frazione di secondo. Il cacciatore si accascia senza un lamento. La torcia cade per terra, con un tonfo sordo. Mike ritira il coltello, annusando il sangue sulla lama.
Il secondo cacciatore cambia strada e torna sui suoi passi, sparando all’impazzata verso Mike e costringendolo a scappare verso l’altro lato del capannone. Una porta, un calcio e Mike è fuori, inseguito dalle raffiche. Si butta in un cespuglio e fa una capriola, stringendo la pistola con le due mani.
Secondi interminabili. Un’altra raffica. Mike vede la canna del mitra e prende la mira. “Sono qui” urla Mike. La luce del laser lo punta. Due colpi.
Il secondo cacciatore cade a terra. Mike tira un sospiro.
Uno scroscio di applausi si diffonde dagli altoparlanti, mentre le fotoelettriche illuminano la scena a giorno. Una voce di donna annuncia:
“Il vincitore… “
“di Fuoco Incrociato…”
“e’…”


Copyright Piero Mattei 2007

Racconto - La gara di Fabio


Bruno aveva un’abilità strepitosa a prepararsi le sigarette usando il trinciato forte e le cartine. Chi lo andava a trovare e lo vedeva mungere le bestie, sapeva che da un momento all’altro avrebbe compiuto quel gioco di prestigio degno di miglior fortuna. Perché durante la mungitura non ci si ferma, le bestie si innervosiscono. Almeno, questo era quello che sosteneva lui.

Con una mano, la destra, continuava a mungere. Con l’altra, la sinistra, estraeva il sacchetto di tabacco dalla tasca della camicia a quadri, lo poggiava sulla gamba, lo apriva, estraeva il pacchetto di cartine, ci metteva un po’ di trinciato, lo rollava e in meno di un minuto aveva una sigaretta che gli penzolava dalle labbra, accesa. E Bruno non era certamente un mancino.

La sua reggia era un podere con un bel pezzo di terra, con dieci mucche da latte. Abitava li’ da una vita, da quando suo padre Luigi prese il treno e da Padova scese con tutta la sua numerosa famiglia a bonificare “le terre irredente dell’Agro Pontino”. Come ricompensa, il governo gli avrebbe dato una casa e terra da coltivare.

Un piccolo universo, quello di Bruno. Fatto di sveglie all’alba, di mungiture, di giornate passate a lavorare nei campi, di pranzi e cene tutti assieme intorno al tavolo della cucina, di serate ad ascoltare le vecchie zie che raccontavano ai bambini storie di fantasmi e di streghe, mentre cucivano e rammendavano davanti alla stufa, con la luce di un piccolo lume ad olio.

Sessent'anni. Un fisico asciutto, solo un po’ ingobbito dalla fatica e dal duro lavoro dei campi.

I solchi scavati sulla pelle del suo viso raccontavano molto di più di quanto il suo carattere scontroso avrebbe potuto. Raccontavano di un tempo che gli aveva portato via papà, mamma, le zie. Di un figlio, portato via dal tifo.

E di Teresa. Degli altri figli, sposati e accasati lontano.

Il figlio più piccolo fortunatamente viveva ancora con lui. Fabio aveva venti anni e si divideva tra scuola e lavoro nei campi. Come tutti i figli più piccoli, aveva potuto approfittare dell'età avanzata del genitore, per spuntarla su molte cose che i fratelli più grandi non erano riusciti mai ad ottenere.

Era riuscito ad entrare nella squadra di canottaggio.

Solo se vai bene a scuola. Se cominci ad andare male, niente più allenamenti”. Bruno non aveva concesso deroghe. E Fabio non aveva mai sgarrato. Studio, lavoro e allenamenti.

Cosi’ Fabio era diventato in pochi anni un canottiere con pochi rivali. Il suo “due con” andava come il vento, sul lago di Sabaudia. Quell’anno, ad aprile, in una gara, i russi avevano appena fatto in tempo a vederlo passare. Un po' come quando da bambini, si partiva e si andava in campagna, a veder passare il treno.

Tre lunghezze. Ed ora, Fabio ed il resto della squadra era pronto per i campionati Europei, che ci sarebbero stati a Luglio, in Germania.

Bruno però non era molto contento di tutto questo. A giugno, ci sarebbe stata la trebbiatura. E chi lo avrebbe aiutato?

Cosi' un giorno dovette fare quello che non avrebbe mai voluto fare.

Dovette proibire a Fabio di allenarsi.

Fabio rimase in silenzio. Saltò l'allenamento e aiutò Bruno tutto il pomeriggio.

La notte, nel buio della sua camera, Bruno sentì Fabio piangere disperatamente. Mise la testa tra i due cuscini del vecchio letto matrimoniale con la testiera in ottone. Non pianse.

Ma non dormì.

Quando il pomeriggio dopo, Fabio saltò nuovamente l'allenamento, il suo allenatore andò personalmente a parlare con Bruno. Da solo.

Il giorno dopo, alle tre di pomeriggio, il pullman che portava tutti i giorni i canottieri all'allenamento, anzichè fermarsi per prendere su Fabio, entrò direttamente nel podere di Bruno, parcheggiandosi sul piazzale, di fronte alla concimaia. L'allenatore spense il motore e scese, seguito a ruota da venti canottieri.

“Signor Bruno, eccoci qua. Come promesso”, fece l’allenatore a Bruno, con aria soddisfatta.

Bruno diede un'occhiata a quella strana combriccola.

“Bene. Il campo è di là” li sfidò Bruno, indicando lo stradone con un cenno della testa.

Fu cosi' che un vecchio contadino, un ragazzo, un allenatore di canottaggio e venti canottieri si incamminarono verso la campagna.

I venti canottieri formarono due squadre. Sotto la direzione di Bruno, cominciarono a muoversi rapidamente su e giù per il campo ammucchiando il fieno in grande quantità.

L'atmosfera si fece rapidamente gioiosa. Come era giusto che fosse in un gruppo di ragazzi poco più che ventenni. Ogni tanto qualcuno tentava di riposarsi, di nascosto. Per poi venire duramente redarguito dall'allenatore.

Fabio cominciò anche a sorridere. Bruno ogni tanto scuoteva la testa, facendo delle smorfie che, per chi lo conosceva bene, valevano molto più di un sorriso.

Bruno e Fabio ci avrebbero messo una settimana. Le due squadre finirono in poco più di cinque ore.

A sera, mentre i ragazzi si facevano la doccia usando l'acqua fredda della gomma dell'orto, Bruno preparò il tavolo sotto il porticato. Quello grande, dove lui quando era piccolo doveva mangiare in ginocchio, da quanto era alto.

In una sera d'estate come quella, dal portico si potevano vedere i campi di grano, illuminati a giorno dalle lucciole. E sentire le cicale, che urlavano disperate la loro insofferenza per il gran caldo.

Una caldaia con otto chili di spaghetti, più diversi litri di vino, contribuirono a rendere la serata memorabile.

Finchè Bruno, un po' alticcio, riusci' ad articolare qualcosa che avrebbe voluto essere un finto rimprovero, verso Fabio.

“E domani, guai a te se salti l’allenamento!”

Tutti risero di cuore, alzando i bicchieri, per l'ennesimo brindisi.

E Fabio pianse ancora. Di gioia.


Copyright Piero Mattei 2007

lunedì 1 ottobre 2007

Racconto - Ogni volta



Posso sedermi?”
Claudio distolse gli occhi dal giornale che stava leggendo. Ci mise un po’ per mettere a fuoco. Un signore dall’aria gentile, calvo, sulla settantina. Molto elegante. Vestito di scuro.
Lo guardava con un sorriso interlocutorio, aspettando la risposta che Claudio stava per dargli, con la testa leggermente piegata verso di lui.
Prego, prego” , disse Claudio, scostando il cappotto dalla panchina. Il signore si accomodò, con un largo sorriso.
Lo sa che lei mi ricorda qualcuno?
Claudio, appena immerso nuovamente nella lettura, percepi’ la frase. Anche lui aveva avuto la medesima impressione.
Effettivamente anche lei ha una faccia conosciuta...”
“Eh guardi, io non dimentico mai una faccia. Il problema è che poi non ricordo a chi appartiene!” disse scrutando attentamente i lineamenti di Claudio.
“Capita anche a me. Anche io sono molto fisionomista, ma ho una pessima memoria per i nomi. Lei è di queste parti?”
Si. Abito in questo quartiere da sempre.”
“Dove l’ho già vista? Forse al supermercato! Io ci vado spesso.”
“Non credo. Una volta ci andavo. Adesso è un po’ che ne faccio a meno.”
“Beh, mi sembra giusto che qualcuno ci pensi per lei!”
Il signore gentile sorrise. “Allora ci siamo visti qui al parco. Io qui ci vengo spesso.”
“Io non credo” fece Claudio, ridendo. “Qui ci venivo quando non andavo a scuola. Poi ci sono tornato oggi dopo tanti anni.”
“Ah, e come mai?” fece incuriosito il signore gentile.
“Voglio fare una sorpresa a mia moglie. Sto aspettando che apra il mio amico gioielliere, per regalarle una bella collana. Sa, oggi festeggiamo dieci anni di matrimonio... lei è sposato?”
“Oh si, certo che lo sono. Mia moglie si chiama Enrica.”
“Come la mia! Ma guarda un po’!” fece Claudio, sorpreso. "E ha figli, immagino!"
"Oh, certamente. Ho due figli, un maschio e una femmina."
"Io ho un figlio e mia moglie è incinta. Partorirà tra qualche mese."
"Auguri! Le piacerebbe più un maschio o una femmina?"
"Femmina, direi. L'importante però è che vada tutto bene."
"Sono sicuro che sarà una femmina. I desideri delle persone oneste si avverano sempre."
I desideri delle persone oneste si avverano sempre. Lo diceva anche papà.
""Comunque lo sapremo presto. Mia moglie è andata a fare l'ecografia e tra un po' saprò se è maschio o femmina. Abbiamo già deciso i nomi. Se è maschio Carlo, se è femmina Giulia."
"Anche a me serebbe piaciuto Giulia. Mia figlia invece si chiama Marta. Mia moglie non ne volle sapere."
Claudio a quel punto ebbe la netta sensazione che quel signore gentile lo stesse assecondando, come a voler guadagnare la sua fiducia, magari per qualche motivo non proprio amichevole.
Un brivido gli percorse la schiena.
Uno squillo di cellulare. Claudio estrasse dalla tasca il suo telefonino. Enrica.
"Scusi un attimo. Ciao amore!"
Claudio si girò dall'altra parte, per avere un po' di riservatezza. Il signore gentile fece un sospiro e allungò le gambe, alzando il viso al cielo, con un'espressione rilassata.
"Femmina! E' femmina!" grido' Claudio. Il signore gentile sorrise, chiudendo gli occhi.
"Ma... come? Come non ti piace più Giulia? Abbiamo discusso tanto su questo!"
In quel momento, cadde la linea.
Claudio si girò, rivolgendo la propria espressione interrogativa al signore gentile.
"Non si preoccupi. Le donne cambiano spesso idea. E' normale."
I due rimasero un po' in silenzio. Claudio guardava il suo cellulare, come a chiedergli spiegazione per quello che le aveva appena detto Enrica. Il signore gentile rimase ad occhi chiusi, assorto.
"S'è fatto tardi. E' meglio che vada." Claudio si alzò in piedi. Prese il cappotto e se lo mise sul braccio. Poi porse la mano destra, in segno di saluto. "Arrivederla!"
"Arrivederla. Abbia cura di sua moglie. Sono sicuro che si tratta di una donna dolcissima."
"E' vero." disse Claudio, con un moto di orgoglio.
"E se le chiede qualcosa, l'accontenti. E' bello rinunciare a qualcosa, per amore."
E' bello rinunciare a qualcosa per amore. Quanto è vero.
Il cellulare suonò nuovamente. Claudio salutò frettolosamente il suo interlocutore e si incamminò, verso l'uscita del parco.
"Ciao amore! Allora? Come è andata l'ecografia?... Ah...bene. Quando ci devi andare?..."
Un ragazzo, sporco e traballante, gli si parò davanti.
"Giovedi' mattina? Ci penso io. Tu stai tranquilla."
Claudio cominciò a frugarsi in tasca, in cerca di qualche spiccio.
"Allora? Giulia non ti piace più?... Dai, non è un problema..."
"Sento male...come? Ah, si. Marta. Va bene. Mi piace!"
Fu un attimo. Il ragazzo estrasse il cacciavite e lo piantò nella pancia di Claudio, che cadde a terra urlando. Il ragazzo perquisi’ rapidamente Claudio rantolante, prese il portafoglio e scappo’ via, mentre cominciavano ad arrivare gli altri abitanti del parco, richiamati dall’urlo.
“Chiamate un ambulanza! Presto!”.
Una signora prese la mano di Claudio e l’accarezzò.
Claudio guardò il cielo, mentre con la mano provava a fermare i fiotti di sangue che uscivano. Gli parve di vedere l'espressione raggiante di Enrica, mentre rimirava allo specchio la collana appena indossata.
Quando arrivo' l'ambulanza Claudio era ancora li', con quell'espressione soddisfatta. Ma Enrica quella collana non l'avrebbe vista mai.
Il signore gentile passò accanto al crocchio, guardando dritto davanti, con aria sofferente. Poi si toccò il ventre.
“Sempre lo stesso dolore”, pensò. “Ogni volta”.


Copyright Piero Mattei 2007

Racconto - Ma... ma... ma...


“Ma… ma… ma…”
“Ma… ma… ma…”
“Vengo, vengo!”
Luisa infila il gomitolo rosa sui ferri da calza e si mette dritta sulla sedia. Chiude gli occhi e si preme le due mani sui reni, con una smorfia di dolore. Guarda la vecchia pendola. Le cinque. E’ ora. Appoggia le mani sul tavolo e si tira su lentamente, fino a restare in piedi. Poi comincia a camminare, a piccoli passi, verso la cucina. Dopo tre giorni di pioggia, l’ultimo pallido sole del pomeriggio si fa largo tra le nuvole minacciose ed entra dalle tende ingiallite, illuminando il pentolino annerito sopra la cucina. Prende un bicchiere dal lavandino e toglie il coperchio. Un profumo di limone si spande per la cucina.
“Ma… ma… ma…”
“Ma… ma… ma…”
Ha quasi ottant’anni Luisa. Le gambe non la sorreggono più, gonfie di dolore e di fatiche domestiche. Il rumore di un motore si avvicina. Luisa scosta la tenda. Tonio passa col trattore sullo stradone sotto casa, schizzando via l’acqua dalle pozzanghere con le ruote. Fa un gesto di saluto a Luisa. Il viso fiero e strafottente, l’immancabile nazionale esportazione al lato destro della bocca. Il rumore si allontana. L’acqua delle pozzanghere si calma.
“Ma… ma… ma…”
“Ma… ma… ma…”
“Vengo, vengo!”
Un altro sorso di tè. Luisa ricopre il pentolino e svuota quello che rimane nel bicchiere nel lavandino. Poi si incammina verso la scala che porta al piano superiore. Il pavimento di legno scricchiola ad ogni passo. Davanti al primo scalino si ferma, alzando la testa verso la cima della scala. Un sospiro.
“Ma… ma… ma…”
“Ma… ma… ma…”
Uno scalino. Prima il piede sinistro. Il braccio destro sul corrimano. Stringere forte con la mano. Tirarsi su. Mettere il piede destro accanto al sinistro. Poi daccapo. Luisa ripete meccanicamente i gesti che la porteranno sul gradino successivo. Ogni due o tre scalini, il dolore alle gambe la costringe a fermarsi e a tirare il fiato.
“Ma… ma… ma…”
“Ma… ma… ma…”
Il corridoio è in penombra. Le porte delle camere sono tutte color legno, tranne la prima, che è di un bel colore rosa confetto, con al centro il disegno di Titti inseguita da Gatto Silvestro. Due passi e Luisa apre la porta.
“Ma… ma… ma…”
“Ma… ma… ma…”
“Amore mio, eccomi qua! Ecco la mamma!” L’espressione sofferente di Luisa si scioglie in un sorriso. Poi allunga le mani verso il letto. I suoi occhi azzurri si posano sugli occhi azzurri di quella donna sorridente, con l’espressione da bambina. I capelli corti e gli occhi sgranati di felicità. Luisa stringe quelle mani piccole, aiutando a sedere sul letto quella piccola donna con il viso da bambina. E nessun dolore. E nessun acciacco. Improvvisamente Luisa ha trent’anni e Marta ha tre mesi. I gesti immutabili preparano Marta per la sera. La poggiano sulla carrozzina. Marta ride contenta.
“Ma… ma… ma…”
“Ma… ma… ma…”


Copyright Piero Mattei 2007

Racconto - Notte d'estate


“Ciao piccolo! Come stai?”
“Ciao papà. Sto bene.”
“Che stai facendo?”
“Gioco. Gioco sempre, tutto il giorno. Qui ci sono tanti bimbi…”
“Ah che bello. Ti diverti tanto?”
“Tantissimo papà. Ora andrò anche a scuola, a settembre!”
“Che bello. I tuoi amici verranno con te?”
“Si si!”
“Che bravo. E come ti sei fatto grande! Me lo dici quanti anni hai?”
“Cinque!”“Cinque? Mamma mia che grande! E dimmi un po’: è venuta mamma a trovarti?”
“No, sono andato io. Lei non viene da me, perché se viene diventa triste.”
“Eh lo so. Quando pensa a te diventa sempre triste. Lei avrebbe voluto sempre stare assieme a te.”
“Ma io dovevo andare via, papà. Glielo hai detto a mamma?”
“Glielo ho detto. Ma lei è triste lo stesso".
“Dai piccolo, non fa niente. Gli passerà!”
“Anche se l’ho fatta soffrire tanto?”
“Ma non è stata colpa tua. Tu volevi correre, saltare… avevi tanta fretta. Mamma pensava solo che tu fossi un po’ agitato, invece…”
“Eh si papà, volevo correre e saltare…”
“Te lo ricordi quella notte quando sei andato via, piccolo?”
“Mi sentivo dondolare, su e giù…”
“Certo amore, stavamo in aereo e l’aereo è come una giostra: prima va su su su su e poi va giù giù giù…”
“Papà, la mamma stava tanto male?”
“Eh si piccolo. Ha perso tanto sangue. Pensa che quando l’aereo è sceso c’era l’ambulanza ad aspettare la mamma e l’ha portata via…”
“Si si, faceva tanto rumore l’ambulanza. Uuuuuuuuuuuuhhhhhhhh. Uuuuuuuuuhhhhhhhhhh. Uuuuuuuuuuhhhhhhh.”
“E poi? Ti ricordi quando siete arrivati all’ospedale?”
“Si. Mamma piangeva forte. Diceva che gli facevo tanto male.”
“E tu che hai fatto?”
“Io non volevo che lei piangeva. Cosi’ la dottoressa mi ha chiesto se volevo andare via, cosi’ mamma non piangeva più e io sono andato via… mi hanno messo dentro un panno bianco e mi hanno portato via…”
“E dove sei andato?”
“Qua! In paradiso!”
“Eri triste quando sei venuto qui?”
“Un po’… fino a che mamma era triste, ero pure io triste.”
“Ma lo sai che da un po’ mamma non è più tanto triste? Ti è nata una sorellina!!”
“E come si chiama? E come si chiama?”
“Giada!”.
“Papà posso giocare con Giada?”
“Solo le la vai a trovare nei sogni, la notte!”
“Va bene papà!”
“Ciao piccolo!”
“Ciao papà!”


Copyright Piero Mattei 2007

Racconto - Trocadero Club


Eccoti qua. Come tutte le sere, sei pronta per uscire. Un paio di scarpe basse rosse, con un fiorellino giallo sul davanti. Un vestito celeste a fiori, con la gonna corta, un piccolo spacco su una gamba.
Tua madre non ti chiede niente. Sa che esci, ma c’è una sorta di accordo: non voglio sapere nulla, cosi’ non ti devo chiedere conto di nulla. L’unica cosa che vuole è un sorriso, lanciato dalla porta, prima di chiuderla alle tue spalle.
Eccoti qua. Pilar. Con la sfrontatezza dei tuoi quindici anni, il sorriso e la voglia di ingoiare il mondo in un sol boccone. Corri e ridi, ridi e corri. C’è un’altra notte da passare a regalare illusioni.
Che fila al Trocadero Club per entrare. Ma qui ti conoscono. Tuo cugino fa il buttafuori e con uno stratagemma sei dentro anche stasera.
La lattina di Tropicola ti gela le mani, mentre guardi distrattamente la pista, dove i ballerini di merengue si muovono al ritmo travolgente della musica. Quanta gente felice al Trocadero Club. C’è il vecchio cameriere impomatato, con la sua giacca bianca, stretta e consunta da migliaia di serate di lavoro. Le movenze non sono più quelle di una volta, ma la gentilezza e il mestiere si. C’è il trombettista del gruppo che guarda il sedere delle coriste.
I turisti, seduti ai tavoli, si guardano intorno, cercando compagnia. Che buffi, pensa Pilar. Pensano di darsi un tono fumando un Montecristo dietro l’altro e scolando bottiglie di Havana Club. Ma e’ ora di darsi da fare.
“Italiano. Quieres bailar con migo?”. Il piccolo italiano pelato e ciccione si alza e stringe Pilar a se con forza, facendole male. Ma lei sorride e lo porta in pista. Non importa se lui le infila le mani dappertutto. A Pilar piace ballare. Si sente leggera leggera. E pensa a quando da piccola sentiva la radio nella baracca con i suoi fratelli e ballava, ballava.
“Andiamo?” fa a muso duro il ciccione. Perché no? Si va.
La camera è vicino al locale. Si fa presto. Il ciccione non vuole aspettare. Pilar lo spinge sul letto. “Italiano, calmo”. L’ultimo le ha strappato il vestito e per tornare a casa ha dovuto farsene prestare uno dalla sua amica Teresita. Si spoglia piano, posando dolcemente il vestito su una sedia e mettendo sotto le scarpe rosse. Poi si sdraia e chiude gli occhi, cercando di immaginare il suo Pedro al posto del ciccione.
“Puttana. Tutta colpa tua!”. Un ceffone. Poi un altro. Poi una grandine. Lei si chiude a riccio e piagnucola. “No italiano no!”. Lui non la smette. “Vuoi i soldi? Eccoli.” Il ciccione glieli infila in bocca, fino quasi a strozzarla. Poi si riveste e se ne va.
Eccoti qua, Pilar. Come tutte le sere, sei sulla strada di casa. Un paio di scarpe basse rosse, con un fiorellino giallo sul davanti. Un vestito celeste a fiori, con la gonna corta, un piccolo spacco su una gamba. La faccia tumefatta e gli occhi pieni di lacrime. Nella mano destra trenta dollari. In testa una malinconica salsa. Che fatica tornare stasera, da Varadero.


Copyright Piero Mattei 2007

Racconto - Elliot Smith


Salve a tutti. Come vi va? Mi chiamo Elliot Smith e faccio il poliziotto. Lavoro a Londra, una città schifosa come poche. Spesso faccio il turno di notte e non vi dico quello che vedo in giro… ma che ci volete fare, cosi’ va il mondo. Io faccio la ronda in un quartiere malfamato, Whitechapel. Pezzenti, ubriachi, ladri, puttane… certe volte mi viene il vomito.
Che razza di lavoro… vi posso dire una cosa? Comincio ad averne abbastanza. Un giorno o l’altro dovrò smettere di fare questo lavoro… a me piace vivere in campagna, curare i fiori, stare in famiglia… è’ la fine di agosto, tra un po’ faccio quarant’anni… non posso continuare a passare le notti in questo girone infernale… non so cosa darei per non uscire anche questa notte…
Saranno un paio d’ore che sono in giro? Mah, mi sembra che sia passata una vita. Sono proprio stanco, me ne andrei a casa… ah, ho incontrato un vecchio ubriacone che voleva accoltellarmi… l’ho ripassato per benino col manganello e gli ho preso il coltello, dovesse riconoscermi e riprovarci… è un bel coltello, chissà dove l’ha rubato, quel vecchio…
Ah, guarda qua chi c’è… un’altra puttana. “Ehi, poliziotto, ti vuoi divertire? Non costo tanto…”
Vai via, mi fai schifo, le dico.
“dai, facciamoci una cavalcata, ti passi una bella nottata, invece di ammazzare di botte la gente per strada”.
Le do una spinta e l’allontano. “Si vattene, vattene, tanto ti ho capito… non ti tira piuuuu… Ah, non ti tira piùùùùùù…”
Sento il sangue che mi ribolle, mi giro e le urlo di piantarla. Ma quella strilla ancora di più, ed inizia a sbracciarsi, a urlare più forte.
“sentite gente, questo qui non vuole scopare. Secondo voi, è frocio o ha la carne lessa tra le gambe? Ahhh, secondo me non gli funziona piùùùùù… ahhh…”
Basta, facciamola finita. Vieni con me, puttana, ti faccio vedere io di cosa sono capace, le dico, tirandola per i capelli. Urla, urla ora, se hai abbastanza fiato per farlo.
“Bastardoooo, lasciamiiiii!”
Quanto urla questa baldracca, sto impazzendo… la trascino con la sinistra e con la destra tengo il manganello, quando sento quella zoccola che comincia a urlare “Aiutooo, questo è pazzo, mi vuole amm…”
Silenzio. Finalmente. Ho sempre i suoi capelli nella mano sinistra, ma nella destra ho il coltello del vecchio… è un po’ sporco… guardo per terra e vedo le gocce di sangue che cadono.
Giro la puttana a pancia in su… il collo è quasi staccato e lei mi guarda come incredula, come volesse dirmi… però, hai le palle, non pensavo avresti potuto farmi questo…
Eh si, io sono Elliot Smith, faccio il poliziotto da vent’anni e non mi faccio sbeffeggiare da una zoccola come te… ora sono stanco, vado a pulirmi… io sono Elliot Smith… anzi, Elliot è un nome da fesso.. d’ora in poi mi farò chiamare Jack Smith… anzi Jack e basta… vi prometto che farò pulizia in questo quartiere, prima di andarmene…

Copyright Piero Mattei 2007

Racconto - Jaws


Ecco Mark, seduto sulla scogliera. Luke l’ho visto prima, con la sua tavola bianca e verde. Arriveranno tutti, tra oggi e domani. Non saremo in tanti. In fondo, a pensarci bene, è cosi’ che deve essere.

Jaws d'altronde non è un posto per signorine. Ogni tanto qualche ragazzino viene qui in questo periodo a fare lo sbruffone. Poi, una volta visto Jaws, abbassa la cresta e si siede buono buono a guardare.

“Jason!”.

Il sorriso di Brian. Mi porge una birra. Ci sediamo anche noi.

“Ci sono tutti?” chiede Brian.

“Ancora no.”

“Sai niente di Robin?”

“No.”

Dopo un pò, arriva anche Luke. Eccoci qui. Tutti e quattro a guardare il mare. A fiutare il vento e la salsedine. Ad ascoltare quelle terrificanti creature che si fracassano sulla scogliera, tentando di farla saltare in aria.

“Sarà proprio nel momento in cui non avrai più paura del mare che lui ti annienterà”. Le parole di Robin mi rimbalzano in testa ad ogni onda.

Ne abbiamo girati di posti. Anche più lugubri di questo. Ma qui, il tempo non conta. Non so da quanti minuti, ore, siamo seduti, senza parlare. Aspettiamo semplicemente che il tempo passi e se ne vada. Che venga domani. Come i soldati, in guerra, il giorno prima di un assalto. Nessuno ne ha mai parlato, ma ognuno di noi è consapevole che potresti non andartene più vivo da qui.

Decidiamo di passare la notte a poca distanza dalla scogliera, in un capanno abbandonato.

C'è anche chi riesce a dormire. Io, qui, non ne sono mai stato capace.

Venti dicembre. La tempesta tropicale si è fatta sentire come ci aspettavamo. Usciamo e ci incamminiamo verso la scogliera. Il sole va e viene.

Jaws va alla grande, stamattina. Per tutta la notte non ha mai smesso di urlare.

Mai.

Mentre ci prepariamo, ogni onda che si infrange sulla scogliera ci schiaffeggia, con una raffica di vento e schiuma. Come a sfidarci.

Mi sembra di sentirlo, Jaws.

"Andiamo cazzoni, venite. Avete le palle per questo?"

Per salire su Jaws non serve saper nuotare. Impensabile, su onde che vanno cinquanta all’ora. Quindi, a turno, uno di noi prende il jet-ski e traina un rider al largo, lasciandolo comodamente sul dorso di Jaws.

La tensione mi sta divorando. Tiriamo a sorte l'ordine dei riders e il primo sono io.

Meno male.

Mi sdraio sulla tavola e partiamo. Facciamo il giro lungo e ci appostiamo, in attesa che Jaws apra la sua bocca.

Ci siamo. Brian piega il polso quattro o cinque volte ed il jet-ski mi inonda, con la sua puzza di benzina.

Via. Cento metri di acqua che mi schizza sulla faccia. Poi Brian molla la cima.

Eccomi Jaws, sono qui. Ora vieni a prendermi, se ne sei capace.

Mi tiro su in piedi e mi volto indietro. Entrata perfetta. Grande Brian.

L’onda mi insegue e sarà almeno tre metri sopra di me. L’adrenalina sale. Il cuore si sta sbattendo per farmi scoppiare le vene del collo.

Giro a destra, e vado dritto lungo l’onda. Sento che dietro il tunnel si sta chiudendo e Jaws che mi sta risucchiando, con gusto.

E allora prendimi, se ce la fai.

Via. Via. FUORI DA QUI!

Mi piego sui ginocchi per restare nel tunnel e provo ad andare giù. Giù in picchiata, fino alla fine dell’onda.

Il bastardo si sta richiudendo, per stritolarmi. Merda! Ancora qualche metro e sono fuori. FUORI!

Non ce la faccio. Non ce la faccio.

Va bene Jaws. Eccomi. Sono pronto.

Non annientarmi, amico mio.

Jaws mi scarica addosso tutta la sua rabbia. Mi sento per qualche secondo come preso nella morsa di uno squalo, che mi sbatte per sminuzzarmi. Alla fine, mi lascia.

Esco dall’acqua e alzo le braccia al cielo. Vedo i ragazzi, e un urlo liberatorio mi squarcia la gola. Una selva di mani mi porge il cinque.

Con calma, Jaws. Tra un po' c'è il secondo round.

“Grande Jason!” la voce di Robin mi scuote. Ci abbracciamo.

Mentre Brian parte per un altro giro, mi siedo per riprendere fiato e per far calmare la tempesta di adrenalina che mi sta facendo sanguinare il cuore.

Jaws, ora dimmelo. Se hai coraggio. Avanti.

Chi è il cazzone tra noi due?


Copyright Piero Mattei 2007

Racconto - Alin


“Allora, quanto vi ci vuole per fare una cassetta di pomodori?”.
Rahid urla sempre. “Che vi paghiamo a fare? Sta arrivando il capo, datevi una mossa. Per la dieci dobbiamo aver finito, c’è un altro campo di pomodori da fare”.
Io sono Alin. Sono venuto in Italia da Albania a lavorare. Cinque euro a giorno.
“Ehi tu, albanese di merda, la prossima volta che ti vedo in piedi ti caccio a calci. Hai capito? Hai capito?”
Rahid parla con me. Voglio lavorare. Non ho risposto e mi sono rimesso giù.
Arriva una macchina.
“Rahid, come va stamattina?”
Il capo è italiano. Sembra uno di quelli di televisione quando stavo a casa, sempre elegante. Ha bella macchina grande e parla sempre telefono.
“Capo, tutto bene qui. Siamo un po’ in ritardo ma stiamo recuperando. Per le dieci finiamo e ci spostiamo.”
“Va bene, chiamo Vito e gli dico che per le dieci viene con il camion”. Il capo fa altra telefonata.
Viene camion tutto sporco di terra si avvicina al campo. “Chi ha finito venga qui”, urla Rahid.
Io finito. “Rahid, me ne vado. Ci vediamo oggi”. Il capo va via.
Devo chiedere ora soldi ad Rahid, ora che c’è capo. Corro. “Rahid, mi servono soldi”.
Rahid mi guarda e non risponde. Non ascolta.
“Rahid, mi servono soldi!” gli strillo.
“Che cazzo vuoi? I soldi te li ho già dati!”
“Devi dare ancora trenta euro.”
“Ma non rompere il cazzo. Non ti ti devo dare niente”
“Che succede?” Capo è tornato indietro a vedere che succede.
“Questo albanese di merda vuole soldi senza lavorare”
“Ah, bravo. Qui prima si lavora, poi si chiedono i soldi. Non funziona cosi’ anche da voi?”
“Io lavorato, ma Rahid non dato tutti soldi”
“Non dire stronzate. Noi paghiamo sempre tutti. Ora mettiti in fila, che devi salire sul camion.”
Io voglio soldi. “Rahid deve dare trenta euro”
“Ancora? Vattene”.
Corro verso capo, gli prendo il braccio.
“Che cazzo fai?” urla Rahid.
Sento forte botta sulla testa.
“Ma che cazzo fai Rahid? L’hai ammazzato…”
“Questo gia rompeva il cazzo da due giorni. Lo dovevo mandare via subito. Albanesi di merda…”
“Vabbè, non perdiamo tempo. Prendi le pale dal camion, chiama due o tre uomini e fai sparire tutto… guarda qua, mi ha sporcato pure la giacca! Merda!”
“Vito, tira giù le pale. Facciamo un po’ di pulizia.”
Perché mi buttate dentro buca? Io no morto, non mi mettere sotto terra. Sento macchina di capo che va via. Non mi buttate terra… non respiro…



Copyright Piero Mattei 2007

Racconto - La cravatta


L’odore del sigaro era insopportabile. Eppure Max era un ex-fumatore, aveva fumato Nazionali esportazione per quindici anni, ma niente, il toscano gli ha sempre dato il voltastomaco.
Nello specchietto retrovisore, il sigaro appariva e spariva, mentre quel tassista lo roteava da un lato all’altro della bocca. I fumatori non sono gente altruista, anzi, in questo sono orgogliosamente egoisti.
Max decide che in quel momento l’odore nauseabondo è l’ultimo dei suoi problemi. Si guarda le scarpe, un laccio più lungo e uno più corto. Poi si guarda i bottoni della camicia. Che strani, chissà quanto tempo era passato dall’ultima volta che si era messo una camicia senza cravatta. Erano almeno otto anni, da quando aveva comprato la prima cravatta da solo, senza l’amorevole ed invadente consulenza di Cristina. Da quel giorno la cravatta era diventato il simbolo del cambiamento e non era mai più uscito senza, neanche la domenica a pranzo da mamma.
Ma quella mattina era partito di corsa senza cravatta e quindi la sua vita stava per cambiare strada nuovamente. Di quello che si accingeva a fare non sapeva niente nessuno. Né Cristina, né i suoi. Max aveva deciso che questa volta avrebbe fatto di testa sua. Nessun ripensamento. Max già stava pensando al momento in cui, quella sera, avrebbe rivisto Tommy.
Tommy era uno determinato. Quando lo conobbe, al liceo, gli era piaciuto subito. Era uno che se si mette in testa una cosa, la porta in fondo. Qualunque cosa. Gli piaceva la ragazza più bella della scuola. Tommy, guarda che quella è una che va con quelli con i soldi. Dove vai tu, che non hai neanche la bici? Sembrava che per lui le cose facili non avessero senso. Doveva ogni volta buttare giù un muro con la cerbottana. Inutile dire che dopo qualche mese di corte spietata, fatta di regalini, bigliettini, scritte sui muri, Cristina capitolò. Un grande Tommy.
Come quando mi disse che voleva imparare a suonare la chitarra. La chitarra? Ma quella cosa che se ci metti le dita sopra non tira fuori una nota neanche se ti spari, che ti serve un maestro che ti fa due palle cosi’ con il solfeggio prima di insegnarti il giro di do? Forse per quando avrai trent’anni ce l’avrai fatta, gli dissi.
Manco a dirlo, Tommy dopo un anno non solo aveva imparato a suonare, ma aveva convinto anche Tommy ad imparare a suonare qualcosa. Tommy aveva scelto la batteria, perché pensava fosse più facile, niente note, niente spartiti, invece… Alla fine avevano messo su un gruppo, niente male. Basso, chitarra, batteria e voce. Cristina alla voce.
Ma poi il tempo e le vicende della vita avevano fatto il loro corso. Il papà di Tommy si era trasferito a Londra e Tommy con lui. Il gruppo era finito e Tommy ogni tanto tornava giù a trovare i vecchi amici. Max si era laureato e aveva trovato un bel lavoro da impiegato in una grande azienda.
“C’è un po’ di traffico stamattina, ci sono i lavori!” disse mister toscano, sbirciando dallo specchietto. “Eh, questi lavori non finiscono mai”, rispose Max. Chissenefrega dei lavori, pensò. Mai come quella mattina il tempo non aveva alcun peso. Che bello non avere i minuti contati, non dover calcolare al millimetro l’uscita di casa e la strada migliore da percorrere per non arrivare tardi al lavoro.
Lavoro. Lavoro. Questa parola ormai gli rimbombava vuota dentro la testa. Che strano, un giorno ti trovi in un posto, con diecimila cose da fare per la testa, la rana dalla bocca larga che ti sbraita contro che sei in ritardo, che le cose che servono oggi servono subito, come quelle di ieri dell’altro ieri… dopo una settimana ti arriva una telefonata.
Quella telefonata. “Max, ora voglio te. E’ fatta!” “Ma dai!!!” “Senti, lo sai che sono uno di parola, se ti dico di venire!”. Tommy è uno determinato, se decide di fare una cosa prima o poi ci riesce. Tra una settimana iniziano le prove e a Tommy gli prudono le mani. Tocca le bacchette infilate nello zaino. Poi riguarda il suo biglietto di sola andata per Londra. Da oggi Max è il nuovo batterista dei Black Woodies.


Copyright Piero Mattei 2007