martedì 30 dicembre 2008

Intervista su "La piazza"


Me la posso tirare un po', per favore? E' sempre un'intervista, anche se su un piccolo giornale locale. Piuttosto che nulla, è meglio piuttosto, direbbe qualcuno.
Grazie a Nadia Turriziani, che mi sta supportando (nonchè sopportando).
Ciao
Piero

Pàssim - Racconti e poesie


Sembra fatto apposta, invece no. Stanno uscendo tutte assieme una serie di pubblicazioni che contengono miei racconti. "Pàssim - racconti e poesie" è l'antologia del Premio Panchina 2008, curata da Grazia Gliozzi. Contiene un mio pezzo che ha partecipato al concorso quest'anno.
Per informazioni e acquisto del libro contattate la casa editrice Odoya
Ciao
Piero

domenica 21 dicembre 2008

Marco Paolini torna su LA7

Marco Paolini torna su LA7, con un nuovo spettacolo.
"La macchina del capo" andrà in onda giovedì 1 Gennaio 2009.

giovedì 4 dicembre 2008

Una storia nel cassetto


I puristi storceranno un po' il naso. Ma se da qualche parte esiste una raccolta di racconti con alcuni dei miei racconti bisogna che si sappia in giro. Anche se su Lulu e si tratta di una raccolta autoprodotta. Soprattutto perchè il ricavato andrà devoluto in beneficienza.

Il collegamento alla pagina del sito "Una storia nel cassetto" dove si parla di questo libro lo trovate qui.
Per acquistarlo direttamente invece cliccate qui.

Non è una buona idea per Natale?
Ciao
Piero

giovedì 27 novembre 2008

Amore di mamma


- Hai acceso?
- Sì, sono pronto.
Lothar si sistemò i capelli. Si chiamava Mattia, ma nessuno poteva chiamarlo così, senza rischiare grosso. Guardò in camera e iniziò a parlare, con tono professionale.
- Signore e signori buonasera. Siamo qui vicino al fiume per quello che sarà l’evento della stagione. Il processo a un infame.
Lothar indicò l’albero alla sua destra. Giulio abbassò lentamente l’inquadratura, scoprendo un ragazzo con gli occhi spalancati e la faccia tumefatta, legato e imbavagliato.
- Vostra maestà, potreste dirci di cosa è accusato questo povero giovine? – disse Giulio, mentre ridendo continuava a riprendere il ragazzo imbavagliato.
- Ma certamente. Anzi, faremo di più. La sua sorte sarà decisa dai presenti. Noi esporremo solo le prove a suo carico.
- LOTHAR! LOTHAR! – un incitamento cadenzato si levò per qualche secondo alle spalle di Giulio. Altri tre spettatori assistevano divertiti alla scena. Claudio, Fabio e Andrea, gli altri devoti sudditi di Lothar. Bene. Allora, l’infame è accusato di aver tentato di sottrarsi al rito di iniziazione.
- Ma questa è una cosa gravissima! – disse Fabio.
- Esatto. Si è rifiutato di consegnare il telefonino, come hanno fatto tutti i suoi compagni della prima G. Non solo. Appena ha potuto ha raccontato l’accaduto ai professori e al preside!
- NOOOOO!
- Eh si. Si è creata una situazione molto spiacevole. Siamo stati interrogati. Forse ci sospenderanno.
- Ma è incredibile, vostra maestà!
- E lo sapete cosa ha fatto quando lo abbiamo bloccato all’uscita della scuola e abbiamo cercato di capire il perché di questo accanimento contro la nostra persona? Si è divincolato e siamo stati morsi! Non ci credete? Guardate qua!
Lothar si sbottonò il polsino della camicia e si tirò su la manica, lasciando intravedere una cicatrice piuttosto evidente.
- Dopo tutto ciò, secondo voi, può essere lasciato impunito?
- NOOOOOO!
- Bene. Confidate nell’immensa saggezza del vostro sire?
- Sì, vostra maestà!
- Noi proponiamo che gli vengano spezzate le dita dei piedi e delle mani.
- SIIIII!
- Bene. Che gli sia tolto il bavaglio. Che le sue urla salgano al cielo. Che anche la luna si accorga del suo dolore! Che sia eseguita la sentenza.
I tre spettatori si avvicinarono al ragazzo e gli tolsero il bavaglio. Per tutta risposta, appena ebbe la bocca libera, questi tentò di morderli.
- Bastardo! Cane rabbioso! – disse Claudio tirandogli un sonoro ceffone, mentre gli toglievano le scarpe. Mentre due a fatica lo tenevano fermo, Andrea prese un paletto di legno da terra e lo brandì con due mani. Lo posò sull’alluce sinistro del ragazzo, prendendo la mira. Poi lo alzò al cielo e vibrò il primo colpo.
L’urlo del ragazzo scosse la campagna. I suoi occhi si iniettarono di sangue e la voce si fece più roca. Un filo di bava scivolò via sulla guancia.
Tutti risero di gusto. Lothar invece si era messo seduto davanti al ragazzo con le gambe incrociate, a godersi la scena e lanciò una feroce occhiata ad Andrea, che si preparò subito al secondo colpo. Giulio nel frattempo riprendeva tutto, con impegno.
Il secondo colpo frantumò l’indice e il medio. Il ragazzo emise un urlo rabbioso.
- MAMMMAAAAAAAA!!!
- Chiama la mamma, che tenero! – disse Giulio rivolto a Lothar, che scosse la testa.
- MAMMMAAAAAAAA!!! – la voce si fece ancora più roca e rabbiosa.
- Sì sì, come no! Mamma, chiama mamma!
Lothar vide cadere il paletto per terra, con una delle due mani di Andrea ancora attaccate. Alzò lo sguardo.
Un essere alto circa due metri, con la testa di cane staccò l’altro braccio di Andrea con un morso.
- Mamma! – disse sospirando il ragazzo seduto per terra.

venerdì 14 novembre 2008

Racconto - Il bottone


Il suono del vecchio Siemens squarta l’ultimo scampolo di paradiso. Ma che male ho fatto per merirarmi questo? L’ho ucciso io Gesù Cristo? Mi pare proprio di no.
E tu? Come risolveresti il problema del bottone ostinato, al quale hai spiegato varie volte che è ineducato stringere a morte la pancia quando viene chiamato a fare il suo dovere? Basta mangiare di meno, bere di meno e rifiutare gli inviti a pranzo e a cena, mi diresti. E io? Potresti per cortesia cominciare a pensare a quella domanda su Gesù Cristo, alla quale ancora non mi hai risposto?
Una cosa posso provare a farla. Una corsetta. Un amico mi ha detto che è semplice. Mezz’ora e hai risolto i tuoi problemi.
Però. Che ci vuole? Mi metto la maglietta, i pantaloncini, i calzini bianchi di spugna e le scarpette mezze sfondate. Poi mi infilo al buio nella camera di mio figlio, alla ricerca dell’emmepitrè.
Eccomi. Chiavi, marsupio, auricolari di ordinanza. Venti secondi per decidere. Soundgarden o Alex De Grassi. Alex no. Non vorrei addormentarmi mentre corro.
Primo giro. Vado bene. Piano, senza correre, la signora infreddolita mi passa davanti e mi ignora completamente. Secondo giro, comincio ad avere qualche problema di respirazione, ma è normale, portare a spasso cento chili non è una passeggiata, è un allenamento. Sul Siemens sono passati dieci minuti scarsi. E quando ci arrivo a mezz’ora?
Seiedieci. Mancano cinque minuti alla fine del supplizio e Black Hole Sun mi sta trapanando il cervello. Mi sento meglio di quando sono uscito e peggio di quel ragazzo con lo zainetto che si avvia al cantiere, incazzato ma almeno riposato, che sicuramente avrà appena preso il primo caffè della giornata e sta per accendersi la prima siga della giornata.
Fatto. Di mezz’ora avrò corso sì e no un quarto d’ora. E tutto per farti piacere a te. Poi dici che l’uomo non si affeziona a delle cose inanimate.
Ok. Che ne dici di darmi un po’ di respiro oggi? Dai.
Ignorante che non sei altro. Un’altra giornata in apnea.

sabato 18 ottobre 2008

"Quaranta" - A-Zine di Ottobre 2008 sul sito di A.S.I.MOV.

Beh, a quanto pare, qualche volta i miracoli si ripetono. Non vorrei che ora la gente mi prenda per uno scrittore in gamba. Ancora non lo sono.
Almeno non come vorrei essere.
Il racconto "Quaranta" è l'A-Zine n. 4 di Ottobre 2008 sul sito di A.S.I.MOV.
Mica male, a ripensarci!

Ciao
Piero

Racconto - Quaranta*


Che freddo avevo stamattina, Ale. Solo tu puoi capirmi. Sono andata in cucina e ho guardato fuori, attraverso la porta a vetri. Pongo scodinzolava. Sa bene come lo tratto, io. Altro che la stronza.
Ho guardato sulla tavola. Stamattina sopra c’era un settantadue, nel vasetto bianco e verde. E poi un ottantadue, nel bicchiere, con un po’ di caffè.
Ho chiuso gli occhi. Vedevo solo il quaranta. Nero, sullo sfondo rosso.
Tu sai come sono. Appena sveglia sono sempre incazzata. Il signor ottantadue e il suo amichetto settantadue sono volati nel cesso. Dura come il marmo, Ale!
Già che ero in bagno, l’ho fatto, Ale.
Quarantaquattro. Merda. Ma tu come hai fatto a scendere?
Mia madre era uscita. Oggi polpette, Ale. Mi ci gioco quello che vuoi. Come faccio? Saranno ottocento, se va bene.
Sono tornata in camera. Ho messo il riscaldamento a palla. Mi sono ranicchiata vicino al termosifone, sotto la coperta e con il phon acceso al massimo. L’ho inventato io, questo sistema contro il freddo. Che ne dici, Ale?
Ho acceso la tele. A quell’ora non c’è niente, solo cartoni e pubblicità. Però c’era quel programma sulla collezione primavera-estate. Che cazzo, Ale. Ma le hai viste?
Ho dovuto cambiare canale. E lì dolci, cioccolata! Lo stomaco mi stava facendo male.
Ma capita anche a te, Ale? Non credo. A te no. Non ti viene mai in mente di andare in cucina. Dovrei bere un cucchiaio di aceto, come fai tu, per farmi passare questa voglia.
Anzi. Mi prendo un lassativo. Ecco, ottima idea, ho pensato. L’ho comprati l’altro ieri, ne dovrei avere ancora. Mi fanno un po’ male alla pancia, ma almeno non penso ad altro.
Niente. L’ho finiti.
Quaranta.
A un certo punto mi sono svegliata. Sai quando ti guardi in giro e dici dove sono? Mi girava la testa. Che cazzo ci faccio in cucina, mi sono chiesta.
Mi sono guardata le dita. Poi sul tavolo. Ale, se mi avessero dato una coltellata, non avrebbero trovato neanche un po’ di sangue.
Davanti a me c’è solo il barattolo di nutella, vuoto.
Ale! Ma hai visto che cazzo ho fatto? Ale, mi devi aiutare, non ce la posso fare da sola! Sei o no la mia socia?
Sono corsa in bagno e mi sono infilata lo spazzolino in gola. Quella merda alla nocciola non mi avrà, ho pensato.
L’ho vista la chiazza rossastra. All’inizio mi faceva paura. Adesso so bene che è buon segno. Significa che è uscito tutto. Pensa che prima che tu me lo spiegassi mi sembrava la buccia di una mela. Ma sarò scema o no?
Poi quando vomito mi sento bene. Mi sento come Dio. Ho il controllo. Decido io.
Mi sono rimessa sotto la coperta con il phon. Mi sentivo stanca, Ale. Mi sono appisolata.
A un certo punto, la voce della troia mi ha svegliato. Indovina un po’? Mi ha comprato le polpette!
Vaffanculo. Tanto anche queste se le mangia Pongo.
Ma come facevi tu a metterti nuda davanti allo specchio e a mangiare lentamente? Non avevi freddo?
Chissà se quando una muore sente questo freddo.
Ma che mi viene da pensare! Tra qualche giorno starò benissimo. Sarò bellissima! Anzi, ora mi alzo e vado a correre. Almeno un ora. Mi copro per bene e mi faccio cinque volte il giro del parco. Milleduecento. Milleduecento calorie in meno. Poi oggi pomeriggio ti vengo a trovare.
Quella troia mi ha nascosto la tuta. Dice che la devo smettere di andare al parco tutti i giorni, che è pericoloso.
Che bello infilarsi i pantaloni senza doverli sbottonare, Ale, avevi proprio ragione. Poi oggi pomeriggio ti vengo a trovare. Vengo a vedere come fai a non mangiare, con tutti quei dottori intorno. Solo io lo so cosa ti serve, Ale. Ma perché non ci lasciano in pace?
Quaranta chili. Taglia trentotto. Ancora qualche giorno, Ale.

* vincitore del concorso A-Zine del mese di Ottobre 2008 su A.S.I.MOV.

venerdì 26 settembre 2008

Racconto - Kustor


-Affari. Solo affari.
La voce di Kustor si fermò un attimo. Si accese una Gitanes e riprese a raccontare.
-Il mondo è cambiato, Mike. Quando iniziammo eravamo degli idealisti, combattevamo pensando che un giorno saremmo riusciti a costruire un mondo migliore, un posto senza guerre, senza poveri e ricchi. Facevamo la guerra alle cose che non ci piacevano. E così ho fatto, per anni. Poi un giorno arriva un ometto. Un impiegato di banca, a prima vista.
-Mi manda Frank Wise.
-Ah. E sentiamo un po’. Che cosa vorrebbe Frank Wise da me?
-Dobbiamo parlare di affari.
-Niente da fare - gli faccio io - alla gente come voi io gli piazzo una bomba sotto il culo e li faccio sparire. Qualunque cosa mi vuoi dire non mi interessa. Anzi, fai bene a sparire anche tu.
-Direi che ti conviene ascoltare la mia proposta.
-Direi che non ho tempo.
-Ripeto che ti conviene. Dammi retta.
Quel tono minaccioso mi fece ribollire il sangue. Lo avrei strozzato con le mie mani, li’, subito. Poi invece decisi di starlo a sentire.
-Sappiamo delle tue imprese. Sei bravo. Molto bravo. Per un po’ di tempo ti abbiamo anche dato la caccia. Poi abbiamo deciso che era meglio lasciarti fare quello che volevi. In fondo non facevi niente altro che il nostro gioco. Più tu attaccavi una caserma, più noi avevamo un pretesto per aumentare la nostra presenza nella zona. Una base saltata in aria? Tre nuove basi nelle vicinanze. Andavi alla grande. Perché metterti i bastoni tra le ruote? Poi hai cominciato a mirare più in alto. Invece di continuare a colpire militari e corpi speciali ti sei montato la testa e hai iniziato con i politici. Poi i finanzieri, le multinazionali… tu capisci, abbiamo dovuto per forza ricominciare a darti la caccia… ed ora ti faccio vedere una cosa.
Apre la sua borsa e tira fuori una serie di fogli.
-Vedi questi elenchi? Dagli un’occhiata.
Prendo due o tre fogli e comincio a leggere. Poi ne prendo altri. E poi altri.
-Ci sono tutti - mi fa – Hai visto? Ci sono proprio tutti gli uomini della tua organizzazione. Basi, finanziatori, fiancheggiatori. Ma anche indirizzi, nomi dei familiari…
-Ok, basta - gli faccio io, puntandogli il ferro in mezzo agli occhi – non mi spaventi con questa roba. Sai benissimo che se distruggete la nostra organizzazione in due mesi abbiamo una nuova rete solida e collaudata pronta per entrare in azione. Non mi freghi. Nossignore. Dimmi che c’è qualcos’altro nella tua proposta, dimmi che non mi hai fatto perdere tutto questo tempo inutilmente…
- Si. Ascolta. Ora viene il bello. Potremmo continuare a farci la guerra, passare i prossimi dieci anni a farci saltare in aria. Ma ci conviene? Sei vecchio ormai, Kustor. La smetti di fare l’idealista? Il Don Chisciotte dei miei stivali? Lo sai di cosa parla il futuro? Parla di fame di petrolio, di fame di energia. I popoli della Terra sono completamente dipendenti dal petrolio e dal gas naturale. E lo saranno ancora di più nei prossimi anni. Pagheranno qualsiasi prezzo. Oro, diamanti… non varranno più nulla. Petrolio, petrolio… si parlerà solo di questo, da adesso in poi. Noi non vogliamo che tra dieci anni i russi e gli arabi comandino il mondo. E stiamo organizzandoci per opporci a questo predominio.
La discussione stava prendendo una piega diversa. Rimisi il ferro in tasca.
-Semplice. Andiamo a prenderci il petrolio dove sta. Nei paesi arabi occidentalizzati e moderati, non c’è verso. Sono potenti, ben organizzati. Diventeranno i nostri nemici, tra pochi anni. Andiamo nei paesi islamici. Sono paesi arretrati, dove chi è più forte la fa da padrone. Non ci sono organizzazioni sociali, strutture di governo, nulla. Solo una massa di tribù che si scannano tra di loro. Andiamo li’ e ci prendiamo il petrolio.
-Ma mi prendi per il culo? Come farete a prendervi il petrolio?
- Quello che tutto il mondo già sa è che sono stati islamici, che hanno basi terroristiche e armi non convenzionali, anche se non è mai stato vero. Ma non basterebbe a giustificare un’invasione. Un invasione costa. Migliaia di soldati, navi, aerei… dovremmo essere aggrediti, per poter reagire in quel modo… insomma, questo è il tuo lavoro, Kustor.
Che ti devo dire – disse alla fine Kustor, spegnendo la sigaretta sul marmo - ho fatto un bel lavoro. Non mi pento. Ho progettato un attentato fantasmagorico. Ho dato tutte le indicazioni e Frank Wise ha eseguito il compitino. Tremila morti? Magari fossero solo cosi’ pochi… questa è una delle cose che sono uscite dai notiziari… ma la cosa più divertente era vedere la faccia del capo di quella organizzazione terroristica finta che ha inventato la CIA. Che ridere, vedere quella faccia da ebete con la barba bianca. Ogni tanto esce in televisione e minaccia il mondo dai suoi monti. Vive sui monti, come Heidi, in un area non più grande di un piccolo paese europeo. Trecentomila marines, più un esercito multinazionale non è stato in grado di trovarlo. Anzi, una volta che lo stavano per prendere è fuggito in moto. Ma dai…
Kustor rise di gusto. A me devo dire non veniva molto da ridere. Non sapevo come, né quando, ma sapevo che sarebbe successa qualche altra cosa, prima che riuscissi ad uscire da lì.
- Ora sai tutto. Ma di te non mi fido, Mike. Sei troppo in gamba. Un amico come te non lo voglio. Figuriamoci un nemico.
Mentre diceva così, Kustor fece un cenno con la testa ad uno degli uomini che mi tenevano le braccia dietro la schiena. Un dolore lancinante mi attraversò il collo.
L’ultima cosa che vidi fu il mio corpo ammucchiato per terra, come un sacco vuoto, coperto dal sangue che mi sgorgava da sotto la bocca.

Racconto - Colpo di muso


Che hai da guardarmi? Hai la coscienza sporca?

Umani. Non capite niente. Mi guardi con quegli occhi imploranti e mi fai delle domande, come se io ti potessi rispondere.

- Come ti chiami?
- Hai fame?
- Perché sei arrabbiato con me?

Lascia stare, ho le mie ragioni, per essere incazzato.
E poi occhio, che io non sono un randagio, uno di quei cani sporchi e brutti che si vedono per strada.
Sto in una casa grande, con un giardino enorme. Una cuccia con tutti i confort, pranzo e cena, finestrina con venticello che quando ho caldo mi ci butto dentro e sembra l'aria condizionata. Poi, al pomeriggio, Marco e Alessio che mi fanno correre a riprendere il legnetto. Sempre più lontano, e io corro. Sempre più veloce, e io sempre più veloce.

E poi gioco a pallone. Loro mi fanno un passaggio a mezz'altezza e io faccio un salto per prenderla con il muso. Colpo di muso, lo chiamano i bambini.

- Dick corri, c'è il gatto!

E io corro e lo faccio scappare. Mica c'ho paura, io. Una volta ce ne erano tre, l'ho rincorsi fino a quando sono scappati e non sono più tornati.

Sono io il padrone del giardino, altroché! La mattina passa Andrea, là fuori dal recinto. - Ciao Dick - mi dice e io abbaio due volte. Mi hanno insegnato a salutare così. Poi si alza la serranda della cucina e la padrona mi butta qualcosa della sera prima. Roba di prima scelta. E tutte le mattine, mica storie!
E quando esce il padrone? Mi metto vicino alla macchina e lo aspetto per salutarlo. Solo scodinzolare, perché lui odia quando mi infilo nella macchina.
Per non parlare di quando gli metto le zampe sui pantaloni per giocare. La volta che ci ho provato mi ha tirato un calcio in pancia che ho vomitato verde per due giorni. Ora lo so, botte non ne prendo più.

Strani, siete proprio strani, voi umani. Stamattina il mio padrone è stato dieci minuti a piangere come un bambino per farmi salire in macchina.
Alla fine per non sentirlo ho deciso di salire. Ma invece di farmi salire davanti con lui, come mi sarei aspettato dopo quella sceneggiata, mi ha aperto il bagagliaio, per farmi mettere sopra una busta di nailon nera e appiccicosa. Ma se hai tanta voglia di stare con me, mi metti così lontano che per parlarmi devi urlare più forte dello stereo? Ma guarda che tipo.

E continuava a urlare, e io su quel nailon, con quella puzza di lavanda che odio. E Dick di qua, e Dick di là, mi diceva che stavamo andando al lago, in un posto fantastico. Siamo arrivati e mi ha fatto scendere.

Non mi ha neanche fatto vedere un po’ di lago che mi ha fatto:
- Dick, vediamo se prendi questo!

e mi ha lanciato un legno più lontano che avessi mai visto prima.

Ah si? Ora ti faccio vedere quanto ci metto, ho pensato. Sono partito a razzo e sono tornato velocissimo.

Ma dove stai? Ma quella che va via è la tua macchina?
Umani. Ma come? Non volevi il legnetto? Corro a tutta velocità a prenderlo e poi te ne vai?

Così ho posato il legnetto e ho aspettato. Ho aspettato. Fino a che sei arrivato tu!
Appena ti ho visto ho capito tutto quello che è successo. E’ colpa tua, sicuramente. Mi ci gioco il collare.
Io stavo andando a prendere il mio legnetto e tu e il mio padrone vi siete messi anche voi a giocare a legnetto. Tu glielo hai tirato lontano, cosi’ lontano che il mio padrone ha dovuto correre in macchina per andartelo a prendere.

Dai, mi è passata, lo so che è un gioco. Può capitare di fare un tiro troppo forte. Guarda, smetto anche di abbaiare.

Giochiamo assieme. Hai un pallone? Ti faccio vedere il mio colpo di muso!

Dai, aspetta qui assieme a me. Io lo conosco bene, il mio padrone. Prima o poi ritorna, vedrai.

giovedì 18 settembre 2008

venerdì 12 settembre 2008

Piccoli scrittori crescono...

E così venne il momento della prima recensione che mi riguarda...

http://www.parvapolis.it/page.php?id=41361

Beh? Festeggiamo o no? Intanto grazie a Nadia Turriziani!

Ciao

Piero

sabato 30 agosto 2008

Il Duca e le A-Zine

Venerdì. Prendo un folder trasparente e ci metto dentro le venti A-Zine stampate e preparate durante la pausa pranzo. Orologi e Niente di strano entrano nello zaino e mi incammino verso il parcheggio.
Una giornata pesante, come ultimamente mi capita spesso. Mi stanno togliendo di mezzo, non per scherzo. Una signorina di belle speranze, arrivata da non si sa dove e non si sa come, mi sta gradualmente sostituendo. Dal primo giorno che l’ho vista sapevo che sarebbe stata il mio sostituto. Ma oggi non mi va giù. Mi pagano lo stesso, ma è dura ingoiare tutta questa merda. E’ dura.
Vado verso casa. I quaranta chilometri scorrono lentamente, con Sanborn che carezza la mia depressione con il suo sax. Prima di arrivare, faccio un salto a LatinaFiori, il centro commerciale megagalattico. Voglio vedere gente. Magari piazzare qualche A-Zine.
Parcheggio e salgo al secondo piano, giro davanti al McDonald e mi infilo dentro il negozio di dischi. Voglio lasciare qui qualche A-Zine. Faccio un giro tra i banchi e trovo un CD che cercavo da tempo. Ziggy Stardust.
E’ proprio quello che mi ci vuole oggi. Metterò questo disco e mi crogiolerò nella mia tristezza fino a casa. Devo soffrire da solo.
Devo avere dieci centesimi di resto. La ragazza si scusa e vola alla velocità della luce in un negozio vicino. Non faccio neanche in tempo a dire che non serviva. Torna con il fiatone e quegli inutilissimi dieci centesimi. Non mi pare il caso di lasciare qui A-Zine. E’ chiedere un po’ troppo.
Ringrazio, saluto e vado verso il nastro trasportatore. Scendo e mi metto in fondo, dove c’è un bel mobiletto di legno, con dentro il motore. Tiro fuori il pacchettino con le A-Zine e lo sparpaglio con indifferenza sul legno. Poi mi allontano e mi apposto, per vedere cosa succede.
Lo sapevo. Questo posto è talmente perfetto che le A-Zine richiamano l’attenzione dei passanti come una composizione floreale. La gente si ferma per imboccare il nastro per pochi secondi. Le donne sono le più curiose, quasi tutte notano quei bei libbricini colorati. Gli uomini, manco a dirlo. Tranne qualcuno, si guardano i piedi o per aria.
Qualche donna allunga la mano e inizia a rigirare tra le dita e a sfogliare quella meraviglia, pur strattonata da qualche marito/compagno/fidanzato che fa una faccia come per dire “Ma che te metti a ffà, namo che ciavemo fretta”. Ma loro dure, mettono l’A-Zine nella borsetta e lo conservano per dopo.
Una coppia di anziani si ferma e guarda con attenzione quei curiosi disegni di barche ed orologi. Anche loro li rigirano tra le dita, si guardano e annuiscono.
Sono venti minuti che osservo la gente e sono soddisfatto. Una decina di A-Zine hanno preso il volo.
Mi sento quasi meglio. Me ne posso andare.
Salgo in macchina, metto il Duca nel lettore e parto. Qualche minuto e una macchina bianca, con i finestrini abbassati gira per le strade di Latina. Alla guida, un uomo quasi calvo, che canta a squarciagola.
Chi l’avrebbe detto, che le A-Zine e il Duca avrebbero avuto il potere di farmi dimenticare una giornata così?

“Starman… waiting in the sky…”

lunedì 25 agosto 2008

"Orologi" - A-Zine di Agosto 2008 sul sito di A.S.I.MOV.

Come faccio a spiegarvi in due parole cosa è il concorso A-Zine? Impossibile fare meglio di Luigi Bruno Cristiano, meglio conosciuto in giro per il web come "remote", che sul sito A.S.I.MOV. lo descrive così:

Il concorso A-Zine è un concorso che l'Associazione A.S.I.MOV. organizza per i Soci:
I racconti vincitori verranno stampati in un semplice foglio A4.
Quel foglio A4, piegato in un determinato modo, produrrà una sorta di libretto che sta comodamente
in un taschino, e non ha bisogno di rilegatura.
Il nostro sogno è questo:
se ognuno di noi scaricasse il racconto vincitore in formato A-Zine che verrà
confezionato dalla redazione e contenente il racconto del mese e se ne preparasse
almeno 10 copie spargendole in giro; dandole alle librerie, ai passanti, abbandonandoli
sui tram, otterremmo una cosa che non si è mai vista.
Gli scrittori A.S.I.MOV. sono in movimento e lo saranno anche i loro racconti.
In pratica porteremo quel NON LUOGO che è la Rete nella Vita reale e dalla Vita Reale
porteremo i lettori alla Rete. Questo perché sulle A-Zine c'è un invito a chi le raccogliesse
di raggiungerci qui, nel Portale A.S.I.MOV., di registrarsi e di dirci dove l'hanno trovata.
Le A-Zine sono il biglietto da visita dell'Associazione, sono la misura della qualità di quanto
scriviamo, siamo noi in molteplici luoghi, contemporaneamente, stando tranquillamente sul divano.

(da un'idea di Luigi Bruno Cristiano)


... il tutto per dirvi che "Orologi" è l'A-Zine di Agosto 2008.

Ciao
Piero

Racconto - Orologi*


- Guarda questo! Non è bellissimo?
- A me piace questo.
- Lo sapevo! Guarda, non ti mettere strane idee in testa che questa collezione è strettamente personale. Piuttosto…
Erika si gettò sulle labbra di Matteo con foga, infilandogli la lingua nella gola.
- Erikaaaa! Tra poco si mangia! – urlò una voce dalla cucina.
- Arriviamo! – rispose lei dopo essersi staccata meccanicamente, lasciando gli ormoni di Matteo in subbuglio.
- Non che ci tenessi a farti venire a cena - disse lei sottovoce – ma sai, mio padre è così. Se esco con un ragazzo lo vuole conoscere. Mi tormenta!
- Nessun problema. E poi tuo padre sembra uno a posto, l’ho visto prima…
- Sì, poi alla fine… - Erika si avventò nuovamente su di lui, riprendendo il discorso. Lui partì al contrattacco, infilandole le mani sotto il maglione. Mentre stava per toccare il paradiso, Erika si ritrasse.
- Aspetta! Sei matto? Se entra mio padre è capace di farti a fettine! – disse lei, ricomponendosi.
Mentre Matteo si stava chiedendo in quale modo lecito avrebbe potuto calmare quel branco di rinoceronti scatenati da Erika, lei prese un altro pezzo dalla sua corposa collezione e glielo porse.
- Guarda qua! L’ultimo arrivato. Questo modello lo usano i paracadutisti, se spingi qua diventa un altimetro!
- Bello. Il cinturino poi è stupendo! – Matteo cercò di trovare da qualche parte un pò di interesse.
- E il tuo? Fa vedere! – Erika prese il polso di Matteo e lo tirò con forza verso di sé. Matteo sorrise.
L’irruenza di Erika non faceva altro che eccitarlo ancora di più.
- Ma questo è diverso da quello che avevi l’altro giorno.
- Si, l’ho comprato stamattina. E’ la prima volta che compro un orologio da sub – disse lui, che ben sapendo della passione di lei, si era premunito.
- Ma che colori! – disse lei, continuando a girare e rigirare il polso. Poi prese a baciargli l’avambraccio, il bicipite, via via salendo, fino al collo.
Quando fu il momento della bocca, arrivò il richiamo da dietro la porta.
- Ragazzi! E’ pronto!
- Veniamo subito! – e poi rivolta a Matteo, in un orecchio – dopo cena i miei vanno a letto presto. Restiamo a vedere la televisione sul divano…
Non fece tempo a finire la frase che prese il lobo dell’orecchio tra le labbra, sospirando. Matteo pensò che quella sarebbe stata la cena più lunga della sua vita.
Mano nella mano, arrivarono in sala, dove trovarono la tavola apparecchiata e si sedettero entrambi. Matteo notò che aveva la porta della sala alle spalle e la cosa lo metteva a disagio. Ma il pensiero del dopocena sovrastava tutto.
- Assaggia questo vino, lo fa mio nonno, è buonissimo – disse Erika, riempiendo il bicchiere di Matteo – non hai ne mai assaggiato uno così!
- Poco però - e si portò alla bocca il calice di cristallo. Il vino era molto forte e aveva un leggero sapore di mandorla che lo rendeva piacevole.
Chiacchierando con Erika, Matteo bevve gradualmente tutto il calice. Dopo qualche minuto, mentre si sedevano il fratello di Erika e la mamma, Matteo cominciò a sudare. Parlava e sudava.
Si rese conto che era meglio darsi una rinfrescata, ma le gambe non rispondevano. Fu preso dal panico.
- Erika, accompagnami al bagno. Sto male! – disse sottovoce.
- Non ti preoccupare, il vino è molto forte.
- Ma…
Svenne sulla sedia.
Il papà emerse dalla porta, con un contenitore in mano.
- Prima io – disse Erika, aprendo il contenitore.
Estrasse una mannaia e prese il braccio di Matteo. Lo posò sul tavolo e lo tranciò di netto.
- Quest’orologio mancava proprio, alla mia collezione! – disse trionfante, mentre il papà, con un taglio da chirurgo, staccò di netto la testa di Matteo e la porse alla moglie, per la cena.

* vincitore del concorso A-Zine di agosto 2008 su A.S.I.MOV.

martedì 19 agosto 2008

Il razzismo secondo Bertold Brecht

"Prima di tutto vennero a prendere gli zingari
e fui contento, perché rubacchiavano.

Poi vennero a prendere gli ebrei
e stetti zitto, perché mi stavano antipatici.

Poi vennero a prendere gli omosessuali,
e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi.

Poi vennero a prendere i comunisti,
ed io non dissi niente, perché non ero comunista.

Un giorno vennero a prendere me,
e non c'era rimasto nessuno a protestare."

Bertold Brecht

giovedì 7 agosto 2008

Il sacco del Circeo

Se ne è sempre parlato poco. Ma la camorra è infiltrata nella provincia di Latina da anni. Ho trovato questo servizio sul sito del TG LA 7 ed è bene che si sappiano queste cose, visto che il comune di Sabaudia multa chi parcheggia sulla duna, mentre chiude gli occhi davanti ad altre situazioni.



Ciao
Piero

giovedì 17 luglio 2008

Racconto - La mia amica verde


Dove ho messo le chiavi? Ah, eccole. Finalmente a casa.
Apro la porta e poso lo zaino. Mamma mia, che stanchezza! Prima di tutto, mi metto qua sul divano, a vedermi un po' di CSI.
Oddio, ma che ore sono? Mi sono addormentato. Le dieci! Ma come le dieci! Sono due ore che dormo e non ho neanche cenato. Alle undici devo andare a prendere Ferruccio. E' ora di muoversi.
Allungo la mano verso il telecomando. Poso le dita sui tasti ed è come se prendessi la scossa. Ma che è? Uno scherzo?
Guardo bene dove ho posato la mano. I tasti dei canali saranno grandi come una moneta da un euro.
Stendo istintivamente il braccio in avanti. Il polsino abbottonato penzola nel vuoto, al di là delle dita protese della mano.
Ma che succede?
Salto giù dal divano e faccio per correre, ma inciampo sulle scarpe ed i pantaloni, intrappolato dai vestiti.
Mi libero a fatica da quel groviglio e ne esco nudo come un verme. Mi guardo intorno. La sedia della sala è alta come me.
Ok, ok. Tranquillo. sto sognando. Devono essere state quelle pasticchine gialle che Mara mi ha dato come antistaminico. Conoscendo le sue abitudini, chissà cosa mi ha dato.
Suona il telefono. Allungo la mano in alto, sopra il tavolo e prendo il cordless. E’ pesantissimo e lo devo reggere con due mani. Me l'appoggio sull'orecchio e il microfono mi finisce all'altezza del torace.
Dall’altra parte del telefono sento la voce di mia madre.
- Pronto! Tonino! Pronto! Mi senti!
- Si mamma, sto qui. Sto bene.
Mamma riattacca. Non mi ha sentito.
Comincio ad avere dubbi che sia un sogno. Come mai ho cosi' tanto freddo? Non ricordo un sogno in cui hi sofferto il freddo.
Calma, calma. Ci deve essere una spiegazione per tutto questo. Mettiamo in ordine le cose. Cosa mi è successo ultimamente? Vediamo.
La zingara. Quella maledetta che quando chiedeva l'elemosina l'ho spinta cosi' forte da farla cadere. Chissà cosa mi ha detto quando mi ha puntato la mano contro e mi ha sbraitato contro quelle parole oscure...
Ma dai! Ma cosa mi viene da pensare! Certo che è un sogno. Adesso dò un calcio alla sedia e mi sveglio. Semplicemente. E mi sveglierò seduto sul divano, con il mio piccolo telecomando a fianco.
Ok. Uno, due, tre.
AHIA. Ahhh… che male! Ma che mi è venuto in mente di dare un calcio alla sedia. Adesso sono un nano con un dolore atroce al piede.
Aiuto. AIUTO!!!
Via di qua. VIA!
Corro verso la porta. Provo a scappare. Ormai non arrivo più neanche alla maniglia. Faccio un salto. Niente da fare.
Devo andarmene. Provo a prendere una sedia per salirci sopra. Non ce la faccio a spostarla.
No.
NOOOOOO!!!
Mi siedo per terra e appoggio la schiena al termosifone. Sento un ronzio. Guardo in alto.
Un animaletto svolazza attorno alla luce del soffitto. Sta disegnando una spirale e discende lentamente verso il basso.
Sta scendendo verso di me.
Il ronzio si fa sempre più forte.
Ora è vicinisimo. Mi metto le braccia davanti agli occhi, per non vedere quello che sta per succedere.
Silenzio.
Sento un solletico sulla gamba. Apro gli occhi.
Una cimice, grande come un gatto, sta camminando sulla mia gamba.
Via. Via. Scalcio disperatamente, per liberarmi e fuggire da qualche parte.
Niente. Non si stacca. E’ come se fosse tatuata sulla gamba.
E sale. Ormai mi è arrivata sul ventre. Provo a toglierla con le mani. Niente. Un odore fortissimo sale verso le mie narici. Mi viene da vomitare.
Mi metto le braccia sulla faccia per proteggermi. Sento camminare sul braccio e poi sull’avambraccio. Poi nulla.
Resisto. Non voglio aprire gli occhi. Sto soffocando dalla paura.
Sento qualcosa che si insinua tra le mie braccia e la faccia. Per quanta forza ci metta, non riesco a resistere. No. NOOOO!
Ho le braccia bloccate sul petto. Una cosa appiccicosa mi prende la palpebra destra. Io la stringo a morte, urlando a più non posso.
Non posso più resistere. Apro gli occhi.
Una minuscola bocca si apre, emettendo un sibilo.

giovedì 19 giugno 2008

Addio, sergente.

Lo scrittore Mario Rigoni Stern è morto ad Asiago, all'età di 86 anni.
Leggi l'articolo.

sabato 14 giugno 2008

L'attesa è stata lunga....

Beh... da qualche parte bisogna pur iniziare. Capisco che avere tra le mani il proprio primo romanzo è un'altra cosa.
Io però sono un principiante e credo che quando ho scritto "La lisca", a Maggio 2007, non immaginassi che un giorno sarebbe uscito in un'antologia della De Agostini, chiamata "Tremilaseicento battute, spazi inclusi" assieme al fascicolo n. 56 del corso "Scrivere".
Insomma, non la facciamo tanto lunga. Sono felice e volevo condividere questa gioia con voi.

Alla prossima!
Ciao
Piero

domenica 1 giugno 2008

Racconto - If the sun refused to shine *



If the sun refused to shine,
I would still be loving you.
When mountains crumble to the sea,
There will still be you and me.
(Thank you - Robert Plant-Jimmy Page, 1969)


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26 Giugno 1970, porto di Dover


Chicco e Piero scendono dal traghetto. Se l’inferno è un posto dove piove, probabilmente assomiglia al porto di Dover.

Piove che non si vede dove mettere i piedi.

- Ma qua, è sempre cosi’? – chiede Piero.
- Te l'avevo detto che a Londra c'era un tempo di merda!
- Vuoi che sia peggio di Amsterdam?
- Poi vedrai...

Chicco saltella tra la gente e vola sotto una tettoia sgangherata, seguito da Piero e da un altro centinaio di persone.
- Un altro minuto e saremmo affogati! – dice Piero, guardando sconsolatamente la sua camicia multicolore, zuppa.
- Se continua questo schifo di tempo, sai che palle!
Chicco fa un cenno con la testa verso l’esterno della tettoia, dove ombre di persone appaiono e scompaiono sotto l’acqua, come fantasmi.
- Siamo venuti per vedere qualche concerto. Quello degli Zep poi, non me lo voglio perdere, costi quel che costi!
Mentre dice cosi’, Piero cerca di strizzarsi l’orlo dei pantaloni gocciolanti, col risultato di trasformare la zampa di elefante in qualche cosa di indefinito.
- Si. E dove lo fanno?
Mentre i due ragazzi italiani litigano sul da farsi, delle voci femminili, poco distanti, canticchiano un brano familiare.
“Ramble on…, and nows the time the time is now… to sing my song…”

- Ecco qualcuno che ci può aiutare. O che almeno, ha lo stesso problema! – fa Chicco
I due amici si avvicinano al gruppo. Non sembrano inglesi, anzi hanno un accento molto familiare.

Napoletano!

Chicco parte in quarta e batte la mano sulla spalla della prima ragazza del gruppo, una ragazza mora, con i capelli lunghi.
- Scusa, sapete dove suonano gli Zep?
- Grande! anche voi italiani, meno male non ci capiamo niente con st'inglese! - fa lei.
- Gli Zep dovrebbero suonare a Bath e noi ci stiamo andando! State con noi?- fa un’altra ragazza del gruppo.
- Piacere Caterina! – fa la ragazza mora, allungando la mano.
- Piacere Piero, e questo e' Chicco, non fate caso ai suoi baffi, hanno preso fuoco con la canna di stanotte!

Grandi risate di tutte le ragazze. Chicco si aggiusta il baffo e fa una smorfia di fastidio verso Piero, con un effetto ancora più comico.
- Chiedo io informazioni di solito, - spiega Caterina a Piero - perche' sono quella che ne capisce di piu d'inglese, le mie amiche iniziano a ridere come delle cretine mentre mi sentono pronunciare “ai spic inglisc so so”, ma appena sentita la voce di un italiano, non potevo non aggregare il gruppo, se tutto va male ci divertiamo come matti!
- Poi, se sono antipatici possiamo sempre seminarli tra la folla! – pensò Caterina.
Mentre si districano tra la folla, Piero e Caterina si sono già raccontati mezza vita, facendo a gara a chi va a memoria sulle parole di Heartbreaker. Nel frattempo, per fare colpo sull’amica bionda di Caterina, Chicco imita Jimmy Page.
O almeno è quello che pensa di fare. L’imitazione è cosi’ insulsa che nessuno del gruppo ha capito chi potrebbe essere un chitarrista così ridicolo.

- ECCOLI! ECCOLI!
Il gruppo si rivolge indietro. Chicco è fermo, con le mani sulla testa. Davanti a lui, su un muro diroccato, un manifesto alto almeno tre metri, con Robert Plant a torso nudo, bocca spalancata e asta del microfono brandita come un mitra.
Sotto, una scritta.

“The Bath Festival – June 27-28, 1970”

- Ma dov’è questo posto?- fa Chicco, razionalizzando quanto ha visto.
- Io lo so – fa Caterina, sistemandosi i capelli – è vicino Bristol, il festival lo fanno tutti gli anni. L’anno scorso ci è andato mio fratello.
- E come ci si arriva?
- Qualche ora in macchina, non ci vuole molto.

Un giorno e mezzo dopo, i cinque ragazzi italiani stanno camminando in un campo incolto, alla periferia di Bath. Seguono una moltitudine di persone, chi suona, chi canta, chi si bacia.
- Meno male che ci voleva solo qualche ora. In autostop sai quando parti e non sai quando arrivi! – commenta Chicco, con un po’ di fiatone.
Anche Piero e Caterina camminano, ma un passo dietro agli altri. Ogni tanto si sfiorano la mano.
- Ma lo sai che hai una bella voce? – gli dice Caterina all’orecchio.
- Tu invece, sei… sei…
- Sono cosa? – fa Caterina, mettendosi con le mani sui fianchi, attendendo minacciosamente la risposta.
- Sei una ragazza speciale. Profonda. E anche carina.
Caterina scioglie piano piano la sua espressione in un sorriso.
- Si. Vabbè. Jamme.
I nostri si fermano su una collina, rapiti dallo spettacolo. Davanti a loro un orizzonte di teste in movimento e di suoni. Lontano, un palco piccolo piccolo.
Sulla destra della collina, un ragazzo con la barba incolta e un cappellaccio in testa sta facendo delle foto con una polaroid a quella scena.

C’è anche il posto dove acquistare i biglietti. Una tenda bordò, con un cartello “Tickets”.
C’è fila. Senza dubbio. A occhio e croce, almeno cinquecento persone. Un serpentone piegato e ripiegato per una decina di volte.
- Si, ma che siamo venuti a fare qui? Noi mica c’abbiamo i soldi! – ammette candidamente Chicco.
- Come non avete i soldi!! – Caterina lo incenerisce con un’occhiata.
- Non vi preoccupate, ci penso io – fa Piero, indicando sé stesso con il pollice.
Chicco e Piero si scambiano un’occhiata complice, sorridendo, atteggiandosi a veterani dai mille concerti.
- Seguitemi! - Piero inizia a correre, portandosi dietro tutta la combriccola. Fanno il giro del recinto, fino a dietro il palco. In quel punto non c’è proprio nessuno; aldilà della protezione, un paio di ragazzi, stanno scaricando degli strumenti.
- E ora, che si fa? - domanda Caterina
- Chiediamo a quei due - dice Chicco. Poi mette le mani attorno alla bocca e urla:

- EHI! JOHN! JOHN!

Uno dei due ragazzi si avvicina al recinto e si rivolge a Chicco, sottovoce.
- Hi, whats the matter?
- Hi, sorry… for the tickets… money…
Il ragazzo guarda quella strana combriccola in modo interrogativo. Poi sottovoce:
- Ue’ guaglio, non alluccate. Aspettate ‘nu poco, a vuje ci pienz je.
Caterina si caccia la mano in gola per non urlare dalla contentezza.
Il ragazzo anticipa la domanda.
- Song’ e Portici. Avet’ aspettà, vel’ agg ritt.
Dopo mezz’ora, magicamente, i cinque ragazzi, dopo essere usciti da sotto il palco, si sono mischiati alle prime file.

Appena in tempo. Si spengono le luci, sul campo di Bath.
L’ovazione assordante di centocinquantamila persone prende quota.

Un minuto. Un uomo biondo, illuminato da uno spot, esce dal buio del palco con un microfono e saluta il pubblico urlando.
- ROOOOBERT! – urla di rimando Caterina, implorando il cielo affinchè quell’angelo biondo si giri dalla sua parte.
L’attesa è finita. Bonzo rotea la bacchetta e inizia a martellare. Jimmy inizia a mulinare la Gibson.

L’attacco di Immigrant Song esplode sulla spianata davanti il palco, trasformandolo in una bolgia. Le ondate di gente si scaricano sulle prime file, dove i cinque ragazzi italiani urlano a squarciagola.
Caterina si avvicina a Chicco, urlandogli nell’orecchio.
- Ma tu, come facevi a saperlo?
- Cosa? – fa Chicco.
- Che dietro al palco c’era un italiano?
- E chi lo sapeva? E chi sono, il mago Zurli’?
- Ma vaff… - Caterina gli dà uno spintone, ridendo.
- Sai quanto rosica Marco quando gli raccontiamo questo? – fa Chicco, indicando con il dito Bonzo durante l’assolo.
- Marco? Quello scoppia! – fa Piero, non smettendo di saltare.
Mezz’ora di sudore e musica, gioia e adrenalina.
Verso la fine, in un silenzio irreale, Jimmy stacca il distorsore e comincia un arpeggio. Il pubblico inizia a cantare e a muovere le mani a tempo.
Thank you.
Caterina e Piero incrociano i loro sguardi, complici.
“ My love is strong, with you there is no wrong,
together we shall go until we die. My, my, my.
An inspiration is what you are to me, inspiration, look... see.”


- Come staiiii? -grida Caterina.
- Mai stato megliooo- rispose Piero, sorridendole.
- Ho capito. Ho capito che non sei mai stato meglio. Ma mi lasci dormire? – Caterina, infastidita, dà uno scossone a Piero, risvegliandolo dal suo meraviglioso sogno.
- Ma… scusa amore… - fa Piero sforzandosi di tenere gli occhi aperti - …stavo sognando di Bath.
- Di Bath? e che sognavi? Racconta!
Lo sguardo della ragazzina innamorata di Robert Plant illumina la stanza a giorno.
Sono le tre di notte. Ma di dormire non se ne parla. Piero e Caterina hanno tirato fuori la scatola magica dei ricordi, quella con tutte le foto di quando si sono messi insieme.
Poi, ne tirano fuori una. Una vecchia foto polaroid, con i colori ormai sfumati ed i bordi consumati dal tempo.
La guardano lungamente, abbracciati.




* scritto con caterina (away)

venerdì 30 maggio 2008

Racconto - Dicevano


Mi hanno detto che sei tornato.
L’ho saputo stamattina da mia madre, ma ancora non ci posso credere. Mi dovevi vedere. Ho fatto un salto dalla sedia alto cosi’. Poi ho iniziato a rotolarmi per terra dalle risate, non riuscivo a smettere.
E pensare che dicevano che non saresti tornato mai a casa tua. Me lo hanno ripetuto talmente tante volte che alla fine avevano convinto anche me.
E stasera non ci sono santi. Non sarà certo questo caldo che mi terrà lontano da te!
Ti conosco bene. Sono sicuro che se passo vicino casa tua, la finestra della tua camera è socchiusa. A te manca sempre l’aria.
Mi avvicino quatto quatto. La tua finestra è al pianterreno. Sotto, accovacciato per terra, c’è il vecchio Toby, che non sta mai a più di tre metri da te.
Non voglio svegliarlo. Piano piano, lo scavalco ed entro. Mentre sono a cavallo del davanzale, lui alza la testa e addrizza le orecchie. Ma poi si rimette giù. Io entro e mi siedo ai bordi del tuo letto.
Guarda che roba! Sai che faccio? Prima di svegliarti, mi voglio godere queste pareti cariche di foto. Forse non te l’ho mai detto, ma questo era uno dei motivi per cui venivo più volentieri qui a casa tua.
Non ci credi? Guarda questa. Questa foto l’ha fatta mio nonno a casa sua. Ci siamo io e te, avevamo si e no otto anni, con le bici. E guarda che bici! Ma le fanno ancora con il freno a pedale? Non s’era mai visto un sistema per frenare che non frenava mai.
Ma quando pedalavamo andavamo veloci come Toby quando inseguiva le lepri. C’era lo stradone dietro il podere del nonno dove facevamo le gare. E quelle gare richiamavano anche tutti i bambini del vicinato. Un tifo da stadio. Anche se in quelle gare non vincevo mai, secondo me perché mi mettevi di nascosto la sabbia sulla catena.
Io e te passavamo le ore sugli alberi, a raccogliere i fichi, mentre Toby abbaiava e scodinzolava con le zampe appoggiate al tronco. Fino a che non arrivavano le vespe e dovevamo scappare per tutta la campagna.
E la gara dei cocomeri? Mangiavamo un cocomero a testa. Poi ci mettevamo all’inizio del campo. Pronti, via. Camminavamo all’indietro, pisciando, vinceva chi faceva la scia più lunga.
E qui non vincevi mai. Ma sono sicuro che se te lo chiedessi, mi diresti che non è vero.
E questa? Questa è bellissima. Ci siamo sempre io e te. Ma eravamo un po’ più grandi.
Guarda che faccie. Tronfie e aggressive. Come a voler avvertire il mondo. Attenti, arriviamo. Sedici anni e la voglia di spaccare tutto. Colpa degli ormoni.
Ma questo l’ho capito solo un bel po’ di tempo dopo.
Poi la vita ha scelto per noi strade diverse, come succede spesso. A diciotto anni ci siamo separati.
Non c’era più molto da divertirsi. Tuo padre tornava spesso la sera ubriaco. Io lo sentivo strillare da casa mia.
Chi ti incontrava, sentiva dai tuoi racconti storie di cadute dalle scale, inciampi, porte sbattute accidentalmente in faccia. Nella tua espressione tumefatta c’era sempre un perchè.
Tuo padre era amico di tutti. Del maestro, del farmacista, del maresciallo. Perfino del prete. E se per caso ti fossi lamentato con qualcuno, chi ti avrebbe creduto?
Poi, un giorno, sei sparito. E sai come è qua da noi, non si fanno domande, non è educazione. Ma di te si dicevano tante cose.
Dicevano di averti visto partire, una notte, di nascosto. Sembravi un ladro che scappava, inseguito dalla paura dei propri ricordi, più che da quella di essere ripreso.
Dicevano di averti visto andare in città, da un tuo amico, a cercare lavoro, per restare li’.
Dicevano di averti visto piangere, che maledivi tuo padre, che ancora lo sognavi la notte e che avevi terrore di quello che stava succedendo a tua sorella.
Quante volte avrei voluto sapere cosa facevi, dov’eri.
Ma qua da noi, non si fanno domande, non è educazione.
Dicevano di averti visto scappare ancora, che eri andato ad abitare in una capanna a qualche metro dal mare.
Per poterti alzare la mattina presto e andare a guardare il sole che sorge. E respirarne il calore che cresce dalla spiaggia.
Dicevano che c’era un vento caldo, giù al porto, quella notte che ti picchiarono in quattro, come se tu da solo avessi potuto anche solo pensare di poter dare uno schiaffo a qualcuno, magari solo per difenderti.
Dicevano che la mattina dopo ti hanno trovato in fin di vita, a metà strada tra la capanna e il mare, con il viso sorridente e lo sguardo rivolto a est.
Poi tuo padre è morto. E tu sei tornato a casa.
Oggi, non appena l’ho saputo, sono venuto qui a trovarti. Non stavo nella pelle dalla gioia. Ho preso il mio scooter e ho attraversato tutto il paese per andarti a comprare quel CD che ti piaceva tanto e che finalmente dopo anni ho trovato.
Spero ti piaccia ancora.
Guardo l’orologio sul muro. Purtroppo s’è fatto tardi.
Mi avvicino alla finestra chiusa e guardo fuori. C’è tanta gente, lampeggianti, polizia.
Tra le gambe della folla riguardo lo scooter rovesciato e il lenzuolo bianco. Vicino, un CD in mille pezzi.
Ma si. Stasera ormai non c’è più tempo per svegliarti.
Domani.
Si.
Domani magari ritorno.
Tanto so dove trovarti, ora.

giovedì 29 maggio 2008

Racconto Tamò - Finalista al Premio Letterario Nemo 2008

Ormai mi sono completamente montato la testa.
Non ci fate caso.
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PREMIO LETTERARIO NEMO 2008

Cari Amici,

eccoci finalmente al traguardo dei finalisti del nostro Premio Letterario "Nemo" 2008.

L’elenco sarà pubblicato nell’albo d’oro del sito www.nemoeditrice.it alla pagina www.nemoeditrice.it/premio/albo.html

Entro il 30 giugno 2008, salvo cause di forza maggiore, saranno proclamati i vincitori.

A tutti Voi un cordiale saluto, e agli Autori partecipanti un grazie speciale

La Segreteria del Premio Letterario Nemo


ELENCO DEI FINALISTI DEL PREMIO LETTERARIO “NEMO” PER INEDITI



PRIMA EDIZIONE 2008

(In ordine alfabetico)


SEZIONE RACCONTI


Caccamo Gabriel – Elsa

Camuti Fabiola – Il nudo rosso

Mattei Pierpaolo – Tamò

Sottocorno Cristina – Inganni

Troccoli Francesco – Storie del domani, del forse e del mai

Zambruno Barbara – Nemesi 3

Link: http://www.nemoeditrice.it/premio/albo.html

Il racconto è qui.

www.nemoeditrice.it
premio@nemoeditrice.it
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Ciao
Piero

domenica 11 maggio 2008

Caparezza - Eroe

Tre minuti e quarantatrè secondi di verità, dura e tagliente come l'acciaio.
Mascherata da canzonetta.
Ascoltare per credere.

Ciao
Piero

giovedì 17 aprile 2008

Racconto - Se siete uomini


La giovane inviata si guardò nello specchietto e si rimise il rossetto.
“Marco, dimmi quando sei pronto”.
“Sonia, venti secondi”.
Chiuse il rossetto e prese in mano il microfono, serrando e riaprendo le labbra.
“Cinque secondi. Quattro. Tre. Due.”.
“In onda”.
“Buonasera. E’ stata una giornata drammatica, qui a Gavirago al Lambro. Vincenzo Ganelli…”


Peppe guardò da lontano tutti quelle luci accecanti, i camion delle varie televisioni. Cinque inviati di altrettante emittenti stanno raccontando quella giornata, in preda all’eccitazione di andare in diretta su milioni di televisori. Vincenzo meritava tanta attenzione?
Si.
Peppe lo conosceva bene, Vincenzo. Aveva un negozio di scarpe, come suo padre e suo nonno. I Ganelli avevano cambiato città, poi erano emigrati dal Sud al Nord, ma non avevano cambiato il loro modo di guadagnarsi la pagnotta. Scarpe e poi ancora scarpe.
Ormai in quel paese, Vincenzo era come se ci fosse nato. C’era arrivato quando aveva quattro anni e ormai ci viveva da quarant’anni. Conosceva i piedi di tutto il paese. Sapeva a memoria i numeri dei clienti più affezionati e a ogni cambio di stagione ordinava le scarpe pensando ai gusti e al portafoglio di ogni cliente. Raramente sbagliava il colpo. Quando arrivavano i clienti, lui tirava fuori le scarpe prese apposta per loro. A chi ci teneva, alzava il prezzo e poi faceva lo sconto.
Il cliente usciva dal negozio più che soddisfatto. E cliente contento chiama cliente.

Sonia puntò di scatto il microfono davanti alla bocca dell’anziano maresciallo del paese, che spaventato si ritrasse.
“Maresciallo Gellini, può raccontarci come è andata?”


Poi, qualche anno fa, le cose sono cominciate ad andare bene. Ma bene veramente. Vincenzo aveva trovato un fornitore di media qualità, che però gli faceva dei prezzi piuttosto bassi.
Le scarpe non erano il massimo, ma per la maggior parte dei suoi clienti sarebbero andate bene. E poi, il guadagno sarebbe stato veramente imponente.
Ma quello che lo fece veramente impazzire fu il momento nel quale arrivò l’euro. I suoi clienti persero la percezione del valore delle scarpe. Cinquanta euro erano come cinquantamila lire.
In quel momento, facendosi trascinare dall’euforia, Vincenzo decise di fare quello che sognava da tempo. Aprirsi un negozio più grande. Acquistò un vecchio supermercato chiuso, in centro. Merce, mobili, attrezzò un ufficio, computer, fotocopiatrice.
Per i soldi nessun problema. La sua banca gli diede credito senza fine, a lui come a molti altri commercianti.
All’inaugurazione del negozio c’erano almeno centocinquanta persone. Fu una festa memorabile.
Poi il vento cambiò. I suoi clienti cominciarono a venirlo a trovare due volte l’anno invece di quattro. Poi una. Poi sparirono. Qualcuno lo aveva visto addirittura uscire dal negozio del cinese, quel negozio orribile, con quelle scarpe di plastica, che stava nel vecchio quartiere operaio.

Sonia passò l’auricolare al maresciallo, in maniera che potesse ascoltare le domande da studio.
“Buonasera maresciallo, sono Trame”.
“Buonasera direttore”.
“Chi erano le tre persone che si trovavano davanti al negozio?”


Chi erano quei tre? Peppe ne conosceva bene uno, che bazzicava la zona da circa un anno. Si chiamava Ivan ed era un ragazzo brillante, con una bella macchina, sempre ben vestito. Diceva di avere una finanziaria e di non aver problemi a prestare soldi. Vincenzo cominciava a non passarsela bene e quindi si fece imbambolare dalla chiacchiera di quel tipo.
Io avevo sempre avuto qualche sospetto, pensò Peppe.
Infatti, i primi cinquemila euro, anzi “euri”, come li chiamava Vincenzo, arrivarono in due ore.
Dopo un mese, Vincenzo chiamò Ivan, per restituire i soldi. Ivan chiese tremila euro in più del contratto. Vincenzo lo cacciò via a calci.
Dopo qualche giorno, il cane di Vincenzo morì improvvisamente e lui, sapendo che era vecchio, non se ne preoccupò. Quando trovò le gomme della sua Punto tutte e quattro squarciate, avvertì il maresciallo Gellini.
“Finchè non succede niente, non posso fare niente. Ti posso far passare più spesso la pattuglia sotto casa. Per adesso nulla di più”. Il maresciallo allargò le braccia, come a scusarsi della propria impotenza.
Fu così che la macchina prese fuoco, e non fu autocombustione, come appurò il perito dell’assicurazione. Poi prese fuoco il portone di casa.
Ma Vincenzo non riusciva lo stesso a ottenere protezione.
Quando il suo vecchio negozio prese fuoco, Ivan fu arrestato e trattenuto per accertamenti. Ma fu rilasciato la mattina dopo.
Peppe era terrorizzato. Vincenzo invece non se la prendeva più di tanto. Ogni volta che si parlava di questa cosa, lui sorrideva. “Li aspetto”, diceva. “Ogni volta che Ivan passa davanti al mio negozio lo sfido. Vieni a prendermi, verme. Prenditela con me, non con le mie cose.”
Così, quella sera, alle otto in punto, Ivan si presentò davanti al negozio e aspettò che Vincenzo chiudesse e si avviasse verso la macchina, per fermarlo.
Vincenzo sorrise. “Eccoti qua, verme. Sei venuto con i rinforzi?”
Poi arretrò, fino ad appoggiarsi con la schiena al muro vicino al negozio. Ivan sorrise ed estrasse il suo coltello, imitato dagli altri due.
Vincenzo si tolse la giacca e l’avvolse sul braccio destro.
“Va bene, vermi. Avanti. Se siete uomini, uno alla volta.
Se non lo siete, peggio per voi.”

Il maresciallo, sollecitato dal direttore, iniziò a snocciolare il suo resoconto.
“Delle tre persone trovate davanti al negozio, uno solo è stato identificato. Si tratta di Ivan Bocci, un usuraio con precedenti penali per reati finanziari. Per li altri sono in corso gli accertamenti di rito”.
“E come sono morti?”
“A tutti e tre è stato spezzato l’osso del collo, probabilmente durante la collutazione con il Ganelli.”
“Grazie, maresciallo. Sonia, abbiamo notizie dall’ospedale?”
“Direttore, mi è arrivato ora il bollettino medico. Ganelli è gravissimo. Ha diverse ferite da arma da taglio e ha perso molto sangue, ma è fuori pericolo.”
“Grazie Sonia. Se ci sono novità, puoi chiedere la linea quando vuoi.”
“Grazie direttore. Da Gavirago al Lambro per ora è tutto. Vi restituisco la linea.”

mercoledì 9 aprile 2008

"Ogni volta" nella newsletter del mese di Marzo 2008 su Penna d'Oca

Gli amici di Penna d'Oca questo mese hanno proprio esagerato! "Ogni volta" è stato inserito nella newsletter del mese di marzo.
Sarà dura mantenere questo livello!

Cliccare qui

Ciao
Piero

giovedì 3 aprile 2008

Il mio primo giorno da scrittore

Eccomi qua. A raccontarvi di una giornata di partenza, di fretta, di valigie, di oddio speriamo che non ci siamo scordati niente.
E poi via sull’autostrada. Destinazione Bologna. Selezione del Premio Letterario Panchina 2008.
Dopo due ore mi rendo conto del motivo per cui non vado tanto in giro. Odio guidare come nessun’altra cosa al mondo.
A pranzo ci troviamo con degli amici a Barberino, ad assaporare un po’ di carne alla griglia ed un po’ di vino rosso. Qualche schermaglia. Che andate a fare a Bologna? Lui ha il saggio di fine anno, fa mia moglie. Si, dico io, poi sto in ferie fino a Novembre. Magari, penso.
Poi l’hotel e la ricerca del Circolo Mazzini. Ma guarda, c’è anche una trattoria. Facciamo un giro, compriamo un libro e ceniamo.
Sono passate da poco le nove. Entriamo e una signora gentile mi saluta, chiedendomi se sono un “autore”. Caspita, mi fa un certo effetto essere chiamato così. Però effettivamente è quello che sono. Piacere, Piero Mattei. Buona sera, sono Grazia Gliozzi.
Non c’è molta gente, se ne accorge anche Eraldo Turra, che presenta la serata, ma non fa niente. Queste serate possono essere tutto, tranne che un evento di gran richiamo.
Si parte. Alcuni autori non ci sono e i racconti li ho più o meno letti tutti. L’attore che legge si chiama Filippo Plancher e devo dire che letti così sono proprio un’altra cosa. Specialmente “4 minuti”, che di tutti era e resta il mio preferito.
Sullo schermo appare il mio nome e Turra viene verso di me per intervistarmi. Mio figlio parte a riprendermi con la macchinetta fotografica. Sono imbarazzatissimo e mi impappino, però ci pensa Turra a togliermi d’impaccio.
Vedere per credere.



Poi Plancher inizia a leggere “La luce”. Sarà che è il mio racconto. Sarà che non ho mai sentito qualcuno leggere così qualcosa di mio, ma il cuore va a mille. A metà racconto comincio ad asciugarmi gli occhi, sconvolto.
L’applauso finale mi scioglie. Respiro. Un sorso di grappa.
Un altro racconto e si vota.

Non è andata bene, come vedete. Inutile dire che ci speravo. Ma le gare sono così. Qualche volta si vince e molto spesso no. Di questa serata mi resta un’emozione incredibile. Quella scena di pochi minuti, un mio pezzo letto per la prima volta da un attore, in quel modo, davanti a una cinquantina di persone renderà questo evento per me irripetibile.
Ci prepariamo e ci alziamo dal tavolino. Plancher mi vede e mi si fa incontro, allungando la mano destra. “Complimenti, un bel pezzo” mi fa, stringendomi la mano. “Grazie, è stata un’emozione grandissima” farfuglio io, emozionatissimo.
Forse non era solo una mia impressione allora. Gli è piaciuto davvero.
Mi avvio alla macchina, pensando che quella stretta di mano e quelle poche parole per me sono un premio più che sufficiente.
Domani si riparte. A scrivere.
Per chiudere, vi metto il video di Plancher che legge “La luce”. L’audio è pessimo, prendetelo come un cimelio.
Anche se io penso che quei pochi secondi tra la fine del racconto e l’applauso la dicono lunga.



Ciao
Piero

martedì 1 aprile 2008

Racconto - La banda


Alex ce l’ha ancora la tromba. La suonava quando era ragazzo e faceva parte della banda. E quella non era una banda qualsiasi.
Era la banda del paese.
Il capo della banda si chiamava Finotti ed era tremendo. Quando facevano le prove, dopo aver suonato per dieci, venti minuti senza fermarsi, alla prima pausa passava vicino a ognuno di loro. Tu hai saltato il si, tu il re, tu hai stonato, tu hai saltato la battuta. Non avevano scampo.
Oggi è domenica, e stamattina, sotto casa, c’è una banda. Chissà se come è il capo. Di sicuro, Alex avrebbe potuto ascoltare un po’ di musica.
Sembra impossibile, ma per sentirne un po’ deve rubare qualche momento qua e là, al tempo che non basta mai.
La macchina, con tutta la radio, l’ha venduta. Con il suo stipendio a casa non se la potevano più permettere. In televisione ogni tanto si vede qualcuno che suona, ma l’apparecchio è monopolio dei figli durante il giorno e della moglie la sera. Qualche volta la notte Alex non dorme, per via di un dolore dietro la spalla sinistra. Così si alza, va piano piano in sala, mette la televisione al minimo e sintonizza su uno di quei canali che trasmettono musica giorno e notte. Poi si sdraia sul divano e si lascia cullare, fino ad addormentarsi.
Ultimamente, Alex e famiglia non se la passano proprio bene. La moglie è rimasta senza lavoro. Capirai, con due figli, chi la prende più? E lei, che ha lavorato sempre, da quando aveva quindici anni, sta per avere un esaurimento. Sono due anni che sta a casa e ce l’ha sempre con lui. Perché i soldi non bastano mai.
Lui invece ha un lavoro che non gli piace e uno stipendio piccolo piccolo.
Poco tempo fa, è andato a parlare con il suo capo. Lui lo ha fatto accomodare nel suo ufficio e gli ha fatto un discorsetto. L’azienda è in crisi, non è il momento di chiedere soldi. Persino lui, così ha detto, sono tre anni che non si cambia la macchina e sta pensando di vendere la sua villa al mare. Ad Alex tornano in mente i discorsi di crisi che si sentivano già dodici anni prima, quando iniziò a lavorare in quel posto.
Poi gli ha voluto lasciare un messaggio di speranza per il futuro, un gesto che Alex ha molto apprezzato. Le sue parole, più o meno, sono state queste: il lavoro è questo e lo stipendio pure. Se qualche cosa non ti va, la porta è aperta, puoi andartene quando vuoi. Poi, per essere sicuro che avesse capito bene il messaggio, gli ha fatto firmare una lettera di dimissioni con la data in bianco.
Alex ha ormai raggiunto anche qualche certezza. E trovare un altro lavoro? A quarant’anni sei un rudere. Non ti prende più nessuno. A meno che tu non voglia lavorare per qualche mese, a metà dello stipendio. E forse neanche così.
Ogni volta che gli viene da ripensare a questa cosa gli si riacutizza il dolore alla spalla. Ma oggi è domenica e, cascasse il mondo, stamattina Alex sentirà la banda. Così trova una scusa per la moglie e va su a godersi lo spettacolo.
Tanto sa già che avrà da ridire anche su questo.
Si piazza sul parapetto. Ci sono pure le majorettes. Guarda attentamente, per vedere se ce ne è qualcuna carina, magari come Linda, quella che era fidanzata con Roberto. La metà delle persone che li veniva a vedere lo faceva solo per le sue gambe. Poi lei camminava davanti a tutti, era la capitana.
Dov’è il trombettista? Eccolo. Però, è bravo, pensa. Anche se avrà si e no quattordici anni, se la cava bene.
Lui però non ce la fa. Si deve andare a prendere qualcosa per la spalla.
Si avvicina al portone del terrazzo per tornare in casa e una fitta lancinante gli lacera la schiena.
Non riesce a stare neanche in piedi. Istintivamente, si mette in ginocchio e si piega in avanti, sembra che così gli faccia meno male.
Resta qualche minuto così, ad aspettare che passi. Poi qualcosa gli tira la maglia da dietro, fino a strapparla e a farla cadere per terra.
Ora gli comincia a fare male anche l’altra spalla.
Alex si gira per guardare il muro, dove è proiettata la sua ombra. E resta di marmo.
Tre braccia. La figura sul muro ha tre braccia.
Si guarda le braccia e sono sempre due. Poi riguarda il muro e ce ne sono tre. Senza staccare lo sguardo da lì, si mette in piedi e prova a roterarle. Due si muovono, mentre la terza non si muove.
Oddio. Ancora quel dolore. Dietro la spalla destra ora. Alex si rimette in ginocchio.
Dopo qualche minuto, il dolore sparisce. L’ombra sul muro ora ha quattro braccia!
Alex scatta in piedi e si mette di fronte alla sua ombra.
Prova nuovamente a far ruotare le braccia. Due si muovono. Le altre due invece stanno ferme lì, come un cristo in croce.
Ho le allucinazioni, pensa. Oppure sono pazzo. Il pazzo si comporta come tale. Potrebbe scendere giù e con un coltello e fare a pezzetti piccoli piccoli la sua famiglia, spargendo gli schizzi di sangue su tutti i muri della casa. Oppure andare dal suo capo e fargli una bella presa d’aria sul davanti.
Magari mi passa, pensa. Me ne sto qui buono buono ad occhi chiusi, sperando che l’incubo finisca. Prova a convincersi che quello che ha visto potrebbe essere un effetto collaterale dei farmaci che si sta prendendo per la spalla.
Niente da fare.
Chiudiamola qui, pensa Alex. Prima di fare qualche casino.
Prende la rincorsa verso il parapetto del terrazzo e salta giù urlando.
Dall’alto del palazzo che dà sulla piazza, lo strillo di un animale ferito impietrisce prima il pubblico che affolla il marciapiede, poi le majorettes e poi tutta la banda. Tutti si fermano, con lo sguardo verso l’alto.
In quel momento, quello che sembrava uno strano volatile planò sopra la banda, che si accucciò per non essere investita, urlando a più non posso il suo verso:
“E’ BELLISSIMOOOOOOOOOOOO!!!!!!”

Copyright Piero Mattei 2007

mercoledì 19 marzo 2008

Limone e cioccolato racconto del mese di marzo 2008 su "Penna d'oca"!

Incredibile. Eppure qualche volta succede.

Capisco. Anche io non ci credevo. Eppure guardate questo link

Ah, dimenticavo. Se voleste leggerlo, il racconto è qui.
Ciao
Piero

venerdì 14 marzo 2008

Racconto - A pranzo da mamma


Odio guidare la macchina più di ogni altra cosa. Odio la coda al semaforo e guardare le faccie sconvolte delle altre persone. Non sopporto quelli che ti vogliono lavare i vetri già puliti e che ti sbattono in faccia pezzi di cartone, con sopra situazioni familiari degne di uno show televisivo pomeridiano.
Mamma è stata telegrafica. “Vieni, ti aspettiamo. Ciao.”
Certo. Avrei potuto trovare una scusa qualsiasi. Lavoro, impegni. Ci sarebbe voluto un attimo. L’ho fatto già altre volte.
Invece stavolta eccomi qua. Ormai sono fuori città. C’è un po’ di autostrada da fare. Cerco qualcosa alla radio. Anche se so che non c’è niente di interessante per me, oggi.
Sono sulla provinciale. Si cominciano a scorgere le colline. Ancora pochi minuti e vedrò il boschetto.
Marco, ma ti ricordi il rifugio? Stava proprio qui, vicino casa tua. A parte te e me, nessuno sapeva di quelle quattro tavole, inchiodate su quell’albero. Ma quanto c’è voluto, per scovare tutto quello che serviva? Dei mesi, credo. I chiodi e il martello ricordo che li abbiamo rubati a tuo padre.
E la scala? Abbiamo passato non so più quanti pomeriggi a provare a farne una. Era un’impresa impossibile. Ma come si fa? Con la corda? E chi è capace? Poi tu hai detto ci penso io, so come si fa. Ma piantala. Vabbè. Proviamo.
La tua scala si è rotta dopo aver salito due pioli. Poi l’hai chiesto a tua mamma, zia Anna. E ci ha pensato lei. Una cosa incredibile! Aveva cucito con dello spago dei pezzi di vecchi manici di zappa a quelle due corde.
Quando calavamo quella meraviglia dal rifugio sembrava di scendere da un elicottero, come nei vecchi film quando cercano di salvare qualcuno da un’inondazione.
Non smettevamo più di salire e scendere. Per un paio di giorni non abbiamo fatto altro.
Il paese è vicino. Ecco il canale. La chiusa dove andavamo a pescare. Ma ti ricordi quanto eravamo scemi? Pescavamo e buttavamo via il pesce. Osservare quei poveri esseri a terra spalancare la bocca e le branchie a scatti era troppo per noi. Dei bimbi rantolanti. Nessuno di noi due ha mai resistito. Il pesce tornava a nuotare dopo pochi minuti.
Gli altri favoleggiavano di tonnellate di pesce pescato senza problema. E noi zitti.
Ma come poteva uscire tutto quel pesce da quel canaletto? E soprattutto, chi lo aveva mai visto? Probabilmente anche gli altri ributtavano i pesci presi in acqua. Eravamo tutti dei veri pescatori, insomma.
Ecco il paese. C’è già la folla davanti la chiesa.
E quanto mi sto sentendo triste, ora.
Eccoti, Marco. Scusa, ma per ora faccio finta di non esserci. Non sono ancora pronto. Da te vengo dopo, mi dico. Dammi un’attimo. Il tempo per salutare qualcun’altro.
Il prete si scaglia contro le moderne mistificazioni della morte. Come Halloween. La morte è ben altra cosa. E oggi non so dargli torto.
Non posso credere che zia Anna non ci sia più. Era la più giovane e la più bella di tutti, in quella famiglia. Se ne è andata in due mesi. Come faccio a trovare un senso a tutto ciò?
L’abbraccio di Marco è fortissimo. E io non so cosa dire. Le sue lacrime mi inondano il viso. Andiamo.
Mentre l’operaio del cimitero chiude il loculo, anche le persone più disinteressate alla cosa smettono di parlare. Il rumore della cazzuola che gratta e reimpasta il cemento rimbomba in quelle quattro mura, affollate di foto e fiori.
Ciao Marco, magari ci si ritrova qualche altra volta, magari in un momento migliore di questo.
Come se poi il tempo per vederci esistesse veramente. Magari per raccontarci ancora del rifugio e delle pescate nel canale.
E’ finita. Si va a pranzo da mamma.

Copyright Piero Mattei 2007

martedì 4 marzo 2008

Racconto - Tamò *


Stamattina il giro tocca al postino nuovo.
Prende la sua bici e dopo un’oretta si addentra a Vico S. Vitale. Non essendo stati ancora inventati i citofoni, per richiamare l’attenzione delle persone destinatarie della posta, alza il viso verso i balconi del primo piano e chiama.
“Laurìa! Posta!”
Una folla si affaccia a tutte le finestre del vicolo.
“Chi Laurìa cercate?”
“Giuseppe!”

Delusa, la maggior parte delle persone rientra in casa, tranne Giuseppe, che scende e apre il portone, per ritirare la posta.
Ogni volta la stessa storia. Vico Laurìa. Così si dovrebbe chiamare.
Davanti l’ingresso del vicolo la mattina è un viavai di venditori ambulanti, donne che vanno al mercato. Sotto gli occhi degli anziani seduti sulle loro sedie impagliate, a contare le persone, specialmente i forestieri.
Ogni tanto arriva pure qualche Ape. L’unico mezzo motorizzato del paese. Si affaccia al vicolo, accosta e si ferma, spegnendo il motore. Poi l’autista scende, prende il carico da dietro e lo porta a mano dove serve. Nessuno si addentra mai nel vicolo se non a piedi, come a non voler violare il suo silenzio e la sua quiete.
Un piccolo viandante curvo su un bastoncino di canna cammina lentamente. A passi piccolissimi, strisciando i piedi per terra. Come a voler misurare la lunghezza di quel budello di pietra viva tra due case affacciate l’una sull’altra, dove gli odori e i rumori si mischiano.
Porta una giacca marrone, sopra ad una camicia a quadri. Un paio di scarpe consunte, con i lacci ormai mozzicati dall’uso. Sotto alla coppola verde un viso roseo, con poca barba e degli occhi chiarissimi. Guarda per terra e misura tutti i passi. Uno dopo l’altro. E sorride.
Una donna anziana si affaccia ad una delle finestre in fondo al vicolo.
“Tamò! Tamò!”
Tamò non risponde. Si ferma e, senza alzare la testa, alza il bastone curvo verso il cielo, come ad indicare un punto immaginario nel cielo. E’ il suo modo per dire eccomi, arrivo, non serve strillarmi. Non ho fatto niente. Dammi tempo.
Altri tre passi. Poi Tamò si ferma e con il bastone scansa dalla strada le cartacce. Come fa sempre. Quella è la sua strada da più di cinquant’anni e anche se qualcuno ci passa pensando di poterla usare quando vuole e farci quello che crede, resta la sua. Il Sindaco, lo chiama qualcuno.
Tutti lo trattano con rispetto, Tamò. Nessuno lo dice, ma quando rotea il bastone, qualche volta succedono cose strane. Inspiegabili.
Una volta stava camminando nel vicolo e una macchina lo tampinava dietro dietro. Un po’ suonando e un po’ dando delle accellerate a vuoto cercava di spaventarlo, di farlo spostare. Tamò roteò il suo bastone e la macchina si fermò, lì in mezzo alla strada. Il proprietario scese e cercò di farla ripartire, senza successo. Non ci fu verso. Dovette arrivare il meccanico del paese e lavorarci per due ore. Una cosa mai vista, disse presentando il conto al malcapitato molestatore della quiete di Vico S. Vitale.
Chi aveva le finestre che si affacciavano su quel vicolo lo sapeva e non si azzardava a farlo arrabbiare. Sapeva a cosa andava incontro.
Una volta addirittura litigò con Tonino, che aveva l’alimentari dopo casa di Lucia, a metà del vicolo, forse per un debito non pagato. Il giorno dopo entrò in quell’alimentari e nel momento preciso in cui mise piede oltre la soglia tutta la luce e tutte le apparecchiature elettriche del locale si spensero.
Tonino andò per riaccendere la corrente dall’interruttore, pensando fosse saltato. Ma lo trovò attaccato.
Tutte le apparecchiature bruciate. Tutte le lampade anche.
Tutto successe quella mattina di Aprile. Arrivò un signore ben vestito, che attraversò tutto il vicolo a passo svelto. Giunse al portone di Teresa, la sorella di Tamò.
Bussò. Teresa aprì.
“Buongiorno Terè.”
“Buongiorno Nicolì. Trasite.”

Nicolino invece di entrare si appoggiò con la mano destra allo stipite della porta ed iniziò a respirare con affanno.
“Aspettate un poco, Terè. Stongo malamente.”
“Oh Gesummio, Nicolì! Concetta! Concè! Concè!”
Teresa uscì di corsa di casa e andò a bussare anche lei alla porta accanto.
“Che è? Si asciuta pazza, Terè?” Concetta si era affacciata dalla finestra accanto.
“Gesummio Concè! Nicolino sta malamente!”
“Uaneme, Nicolino! Che vi sentite?”

Il povero Nicolino si era quasi seduto per terra e aveva chiuso gli occhi, sperando che quel malore, come era arrivato, se ne andasse. Inutile dire che Vico S. Vitale si trasformò in pochi secondi in un formicaio. Chi porgeva un bicchiere d’acqua, chi strillava, chi provava a farlo camminare.
Tamò, nel frattempo proseguiva, per la verità senza troppi patemi d’animo, verso la fine del vicolo. Con il suo passo da maratoneta, a mano a mano si avvicinava a quel rumoroso crocchio. E cominciava a volgere lo sguardo verso Nicolino.
“Nicolino sta malamente! Gesummio!” urlò disperatamente Teresa, rivolgendosi a Tamò, che finalmente giunse nei pressi del malcapitato.
Si fermò. Si tolse la coppola e la fece cadere a terra, scoprendo il capo completamente calvo. Chiuse gli occhi e sorrise.
Poi alzò il suo bastone e lo roteò per aria. A quel gesto, tutti si ritrassero, temendo un cataclisma di dimensioni bibilche.
Invece Tamò abbassò il bastone e lo posò sulla pancia di Nicolino, per qualche secondo.
Il malato smise di respirare per qualche secondo, sgranando gli occhi.
“Gesummio! Nicoli’. L’hai acciso!”
Mentre tutti ricominciavano a strillare, più forte di prima verso Tamò, Nicolino cominciò a tossire.
Tutti si girarono nuovamente verso Nicolino, che aveva ripreso colore e si guardava intorno, probabilmente chiedendosi il motivo di tutto quel mercato.
“Tamò. Maronna ‘ro carmene. Ma che tenete? A bacchetta maggica?” chiese Giuseppe, mentre Teresa Gesummio aiutava il malato a rialzarsi.
Tamò sorrise. Sembrava volesse dire qualcosa. Invece infilzò la sua coppola con il bastone e se la rimise. Poi entrò nell’uscio.
“Ciao Tamò”.
Luigino passò lì vicino con la bici, veloce. E’ un bravo ragazzino, Luigino. Quando passa vicino a Tonino lo saluta sempre. Da quella volta che stava su un motorino assieme ad un suo amico e gli passò a fianco, urlandogli contro.
Tamò roteò il bastone e il motorino si spense. Per sempre.

* finalista al Premio Letterario Nemo 2008


Copyright Piero Mattei 2007

giovedì 21 febbraio 2008

Racconto - La scritta sul muretto


Qualche volta, quando cerchi di ricordare un viso, un’espressione, la tua memoria fa cilecca. E più ti sforzi, più il viso che cerchi diventa un’immagine sfumata, dai contorni indefiniti. Ti vengono in mente altri visi, altre espressioni. Lo sforzo immane, alla fine, ti convince che il viso che cerchi è una cosa a metà tra due visi, oppure un incrocio tra un viso ed un’espressione.
Stamattina il tuo volto non ce l’ho. Mi manca, come mi mancavano le figurine per completare la collezione di giocatori, che poi non trovavo mai.
Poca gente, stamattina in spiaggia. Barche rovesciate, il moscone in secca. Gli ombrelloni aperti i bambini che giocano sul bagnasciuga, dove qualche anziano passeggia, in pantaloni bianchi e camicia a fiori.
E’ agosto, ma ormai il sole non mi scalda più come ha fatto fino a ieri.
Mi guardo intorno, cercando di trovare qualche cosa, una cosa qualsiasi, che mi ricordi qualcosa di te. Nulla. Tutto quello che resta qui di noi assieme è questa scritta sul muretto, fatta con il pennarello, fatta la prima sera che siamo usciti assieme, dopo esserci baciati. La leggo e la rileggo, cercando di vederci il tuo viso, tra i tratti incerti di inchiostro indelebile.
Qualcuno siederà qui al mio posto domani. E forse, riuscirà a vederci quello che io non riesco.
Prendo il cellulare e provo a mandarti un ultimo saluto. Vorrei dirti che ti rivedrò presto, che verrò a trovarti a casa tua, a Firenze, come ti ho promesso mille volte.
Non ho il tuo numero. Forse non l’ho mai avuto. Non so cosa chiedere al mio cellulare, per poterti scrivere, salutare, parlarti ancora una volta.
Forse anche questa volta sono stato vigliacco e ho avuto paura di innamorarmi. Forse ho cancellato l’unico legame che avevo con te, il tuo numero.
Quello che so è che ora non faccio altro che mandare messaggi a grappolo, a numeri che sembrano il tuo, sperando di convincere il caso che sono veramente innamorato. Anche se non lo voglio ammettere neanche a me stesso.
Un’altra possibilità. La voglio. La pretendo.
Basterebbe sentire la tua voce. Basterebbe per addolcire questa tristezza che mi sta mangiando vivo, che mi sta facendo respirare a fatica.
Nessuno mi salverà da questa giornata.
Rimarrei qui tutta la vita, se servisse a rivederti. O a risentirti. Perché so che prendere la macchina e farmi trecento chilometri di autostrada per tornare a casa senza ricordare il tuo viso potrebbe uccidermi.
Sbatto la testa sul muretto e piango.
Piango perché sono stato egoista e l’egoismo andrebbe abolito per legge. Andrò al bar e ordinerò una vodka. Poi un’altra, sperando che l’alcol riesca a cancellare questa mia voragine.
Dopo mi sdraierò qui sul muretto. Con la testa sulla nostra scritta.
Aspetterò che passi anche l’ultimo giorno al mare.

Copyright Piero Mattei 2007

domenica 10 febbraio 2008

Racconto - Limone e cioccolato *


Quanto ci vuole per percorrere cento metri?
La figlia di Giacinto abita a pochi isolati di distanza da lui. Eppure, cento metri tra la casa di un anziano solo e quella di sua figlia possono diventare dieci chilometri. Una famiglia di quattro persone ti mangia tutto il tempo possibile. Si sa come vanno queste cose. Alla fine, non ci si vede mai.
Quando poi arriva l’estate e sua figlia parte con tutta la famiglia per le vacanze Giacinto smette anche di dormire. La sua solitudine si dilata. Giornate caldissime e notti afose.
La sua Clara ormai da dieci anni è in viaggio. Giacinto la immagina così Clara. In viaggio, in giro per il mondo, a vedere quei posti che le sarebbe sempre piaciuto vedere ma che non ha mai potuto vedere. In Egitto, sotto le piramidi. Oppure a Parigi, seduta sul prato sotto la Torre Eiffel. Beata lei. Sempre in viaggio.
Giacinto ha deciso di non uscire di casa per tutto il giorno, almeno per quelle tre settimane nelle quali Antonella è in vacanza. Esce solo il pomeriggio tardi, quando l’asfalto rimanda solo un tenue calore e c’è quel bel venticello che ti rinfresca la faccia. Va al centro commerciale. Un posto bellissimo, dove c’è un gran bel fresco e c’è tanta gente allegra, tanti ragazzi abbronzati che scherzano e ridono. Lì c’è una bella panchina verde, vicino ad un’aiuola finta. A parte Giacinto e qualche suo coetaneo, le panchine non le usa più nessuno. Tanto che i gestori di un fast-food, che si trova davanti alle panchine, hanno pensato bene di occuparne mezza con la statua di un pupazzo giallo e rosso, gli stessi colori dell’insegna. Il pupazzo siede mollemente sulla panchina, con il sorriso ebete e la mano sinistra allungata sulla spalliera, come ad aspettare qualcuno che si sieda a fianco e che condivida la fatica di sembrare felice tutto il giorno e tutta la notte.
Qualche volta Giacinto si siede a fianco al pupazzo, per sentire l’illusione che quella statua voglia cingergli le spalle e avvicinare il suo viso al suo, per raccontagli qualcosa di inconfessabile, come fanno gli amici. Anche solo per commentare qualche minigonna un po’ troppo corta.
Alle sei e mezza, puntuale, Giacinto va al chioschetto dei gelati e si prende un cono al limone. A lui piacerebbe limone e cioccolato, ma ha smesso di prendere i due gusti insieme quando due ragazzi seduti ad un tavolo vicino, per farsi notare da due ragazze che li guardavano, l’avevano apostrofato brutalmente.
“Vecchio rimbambito! Che fai? Limone e cioccolato? Che schifo!”
Anche se il gestore del chiosco l’aveva mandati via a male parole, Giacinto aveva deciso che da quel momento in poi l’accostamento lo avrebbe fatto comunque, ma a modo suo. Un giorno limone, l’altro cioccolato.
Dopo aver letto il quotidiano che il padrone del chiosco dei gelati conserva per lui fino alla sera, Giacinto si avvia verso casa. Alle otto c’è il telegiornale e quello è un appuntamento al quale non sarebbe mancato per nulla al mondo. Una volta, prima del telegiornale davano le previsioni del tempo. Ora non più. Come se a nessuno interessasse più sapere che tempo fa il giorno dopo. A pensarci bene, cosa volete che interessi a chi si deve comunque alzare per portare i figli a scuola e andare a lavorare di corsa se piove o no?
Giacinto si prepara la sua cena. Un po’ di brodo, una scatoletta, un po’ di frutta. Le sue finanze non gli consentono di riempirsi lo stomaco come vorrebbe. Cosi’ qualche sera si fa un po’ di brodo in più, per zittire quel brontolio fastidioso.
Un sonnellino sulla poltrona. Poi, verso le undici, comincia la lunga attesa del mattino. Giacinto ha imparato a riconoscere tutti i rumori della notte. Il rumore della macchina del figlio di Assunta, che torna la notte con lo stereo altissimo e lo spegne prima di imboccare la via che lo porta a casa, nell’appartamento sotto al suo. Il rumore del treno, che si sente in lontananza passare, verso le tre. Infine il fracasso infernale del camion della spazzatura, che annuncia la fine della notte, verso le sei di mattina.
Giacinto la notte la passa sulla sua poltrona. Ogni tanto fa un sonnellino, di qualche minuto. Il resto del tempo lo passa guardando un po’ la televisione e leggendo. Soprattutto leggendo. E’ un divoratore di libri, giornali, riviste. Qualsiasi manufatto in carta contenente delle parole scritte lo incuriosisce e lo attira verso la scoperta e la lettura. Libri ne ha tantissimi e li ha letti tutti. Ogni tanto qualcuno gliene regala uno e lo rende l’uomo più felice del mondo. Adora i libri di fantascienza.
Ma quello che si ritrova a leggere più spesso sono le riviste usate, che gli altri inquilini del palazzo, ben conoscendo le sue abitudini, gli regalano a pacchi.
Cosi’ il suo salotto è diventato una specie di edicola di riviste usate, che lui ordina per data, meticolosamente. Una volta lette e rilette, le impacchetta per bene e le porta alla raccolta della carta.
Sonia è la sua vicina di casa. Abita sul suo stesso pianerottolo. Una donna russa, sulla sessantina. Fa la badante ad una donna immobilizzata. Esce tutte i pomeriggi verso le cinque e torna la mattina, appena dopo il camion della spazzatura. E’ una donna grande e grossa. Di una bellezza di quelle di una volta. Si vede che nella vita non ha mai fatto diete, né ginnastica.
Una donna sana, come erano sane le donne della sua infanzia e come era sana la sua Clara.
Un sorriso cortese e dei modi spicci. Poi, quell’italiano stentato, quel dare del tu a tutti, che la rende ancora più particolare.
Giacinto, tutti i giorni alle cinque e tutte le mattine alle sei si affaccia alla finestra della cucina e guarda in strada, per vederla.
Lei, che ormai lo sa, alza gli occhi verdi verso la finestra. E attende il suo immutabile “Buongiorno Sonia” o “Buon lavoro, Sonia”.
Certo, lei invece aveva tutta un’altra mentalità. E’ capitato qualche volta che Giacinto sia andato di malincuore a bussare alla sua porta. Una volta, ad esempio, era rimasto senza riviste. Conoscendo le abitudini di Sonia, ha aspettato pazientemente che arrivasse mezzogiorno per bussare alla sua porta.
Lei gli ha aperto ed era in camicia da notte.
“Giacinto! Come stai? Che succede?”
Giacinto snocciolò d’un fiato la frase che si era preparato dalla mattina.
“Buongiorno Sonia. La prego di scusarmi se la disturbo a quest’ora. Volevo chiederle, se per lei non è troppo disturbo, se per caso aveva delle vecchie riviste che non le servono più. Sa, io la notte la passo a leggere e…”
“Si che ce l’ho. Vieni dentro, siediti. Te le prendo.” fece lei, facendosi da parte sulla porta per farlo entrare.
“Grazie. Lei è molto gentile, come sempre. Preferirei rimanere qui sulla porta, se non le dispiace.”
“Ma vieni dentro, Giacinto! Che fai su porta?”
“La prego, non voglio crearle disturbo. Aspetto qui.”

Figuriamoci! Entrare in casa di una donna sola. Per di più in camicia da notte! Che avrebbero pensato i vicini?
Poi lui era comunque un uomo sposato. O almeno, si riteneva ancora tale. Perché Clara era in viaggio e prima o poi sarebbe tornata. E come le avrebbe potuto spiegare che aveva bussato a mezzogiorno a casa di Sonia? E che lei gli aveva aperto in camicia da notte? E che lui, con la scusa delle riviste, era entrato in casa sua? Clara gli avrebbe mai creduto?
Quella mattina, successe che Sonia, rientrando, non vide Giacinto alla finestra, per la prima volta dopo mesi e mesi. Le ritornò in mente che tempo addietro si era sentito male, per uno sbalzo di pressione.
Non perse tempo e salì di corsa le scale. Bussò alla sua porta.
Giacinto le aprì. Aveva una faccia cerulea e un soffio di voce. Parlava a tratti e faticava a respirare.
“Buongiorno Sonia. Mi scusi se non l’ho salutata prima… ma non mi sento molto bene oggi… sono rimasto in poltrona… non ce la faccio neanche a stare in piedi.”
Lei non perse tempo.
“Giacinto, mettiti seduto che ti misuro pressione” e mentre gli diceva cosi’ gli prese le mani e lo fece sedere sulla poltrona. Poi estrasse rapidamente l’apparecchio per misurare la pressione dalla borsa.
Che mani calde, aveva Sonia. A Giacinto le vennero in mente le mani di Clara.
“Settanta-novanta” disse Sonia, togliendosi lo stetoscopio.
“Prendi medicine per pressione?” chiese preoccupata.
“No… il dottore mi ha detto che non mi servono ancora…”
Giacinto fece una pausa più lunga e riprese fiato.
“Le posso chiedere una cortesia, lei che è così gentile… mi dà una mano ad alzarmi… mi preparo un caffè ben zuccherato e mi sentirò meglio… ”
“Ma cosa ti prepari caffè!” lo rimproverò Sonia. “Io ti preparo caffè! Tu stai su poltona e non ti muovere!”
Giacinto, un po’ perché era parecchio tempo che non veniva rimproverato da qualcuno, un po’ perché non sapeva che cosa dire, se ne stette zitto e buono.
Dopo qualche minuto e una bella dose di caffeina e zucchero, aveva ripreso la voce ed il colore.
“Sonia, non so come ringraziarla. Mi scusi ancora se le ho fatto perdere tutto questo tempo. So che lei è stanca e deve riposare. Mi scusi ancora”
“Ma stai scherzando? Stai bene adesso? Sicuro?”
“Si. Sto bene adesso.”
“Dopo torno a vedere se stai bene.”

Fu così che quella mattina, rivide Sonia per ben due volte. E lei tutte e due le volte rimase a chiacchierare con lui per qualche minuto, per vedere che effettivamente stesse bene e non si nascondesse dietro alla sua timidezza e alla sua gentilezza.
Giacinto riprese il suo ritmo normale e la sua routine giornaliera.
Qualche giorno dopo, a mezzogiorno in punto, bussò alla porta di Sonia.
“Giacinto! Stai bene? Tutto a posto?”
“Buongiorno Sonia. Sto benissimo, grazie.”
“Ti serve qualcosa?”

Giacinto prese fiato e disse tutto quello che doveva dire a raffica. E se qualche vicino avesse sentito, pazienza.
“Sonia, io sono in debito con lei. Sarei molto felice di poterla invitare a pranzo. Oggi.”
Sonia rimase qualche secondo in silenzio, cercando di metabolizzare rapidamente quello che aveva appena sentito.
“Giacinto! Ma… certo. Certo. Vengo a pranzo a casa tua!” disse alla fine sorridendo. “Dammi solo qualche minuto e vengo da te.”
Giacinto tornò a casa sua e dopo venti, interminabili, eterni, stramaledetti minuti, sentì bussare.
Giacinto non dovette precipitarsi. Era già in piedi dietro alla porta. Aprì.
Un bel vestito celeste. Un paio di orecchini vistosi, che incorniciavano il viso bianco e rosso. Le labbra lucide di un rossetto appariscente rimandavano un sorriso da togliere il fiato. Giacinto la riconobbe solo dopo qualche secondo.
Clara era in viaggio. Quando sarebbe tornata, lo avrebbe perdonato.
“Posso entrare?”
“Si. Si. Certo!”
fece Giacinto, imbarazzato.
Nel soggiorno, il tavolo era apparecchiato in modo impeccabile. Non c’era neanche una rivista in giro.
“Si accomodi, la prego.” disse lui, indicandole la sua poltrona. “La pasta è quasi cotta”
Lei si sedette e lui sparì in cucina. Dopo un minuto, riemerse con aria soddisfatta e andò verso di lei.
“Sonia, mi perdonerà. Non vorrei sembrarle sfacciato. Mi sono permesso…”
Giacinto porse un bel mazzo di fiori di campo a Sonia, che ringraziò imbarazzata.
“Anche io ho qualcosa” disse lei, infilando le mani nella borsa.
Estrasse una piccola busta bianca e la diede a Giacinto.
La faccia di Giacinto passò dal bianco, al rosa, al rosso in pochi secondi.
“Grazie. Santo cielo! Grazie, non si doveva disturbare! Lei è troppo gentile!”
L’imbarazzo lasciò presto il posto alla curiosità.
“Posso aprire?”
“Però mi prometti una cosa”
rispose lei, con aria di sfida.
“Che cosa?”
“Basta dare lei. Lei. Lei. Sonia e basta.”
“Va bene. Sonia e basta.”

Giacinto sorrise ed estrasse un pacchettino dalla busta bianca. Una piccola confezione di gelato sciolto.
Due gusti. Limone e cioccolato.

Copyright Piero Mattei 2007


* Racconto del mese di marzo 2008 su "Penna d'oca"