giovedì 17 aprile 2008

Racconto - Se siete uomini


La giovane inviata si guardò nello specchietto e si rimise il rossetto.
“Marco, dimmi quando sei pronto”.
“Sonia, venti secondi”.
Chiuse il rossetto e prese in mano il microfono, serrando e riaprendo le labbra.
“Cinque secondi. Quattro. Tre. Due.”.
“In onda”.
“Buonasera. E’ stata una giornata drammatica, qui a Gavirago al Lambro. Vincenzo Ganelli…”


Peppe guardò da lontano tutti quelle luci accecanti, i camion delle varie televisioni. Cinque inviati di altrettante emittenti stanno raccontando quella giornata, in preda all’eccitazione di andare in diretta su milioni di televisori. Vincenzo meritava tanta attenzione?
Si.
Peppe lo conosceva bene, Vincenzo. Aveva un negozio di scarpe, come suo padre e suo nonno. I Ganelli avevano cambiato città, poi erano emigrati dal Sud al Nord, ma non avevano cambiato il loro modo di guadagnarsi la pagnotta. Scarpe e poi ancora scarpe.
Ormai in quel paese, Vincenzo era come se ci fosse nato. C’era arrivato quando aveva quattro anni e ormai ci viveva da quarant’anni. Conosceva i piedi di tutto il paese. Sapeva a memoria i numeri dei clienti più affezionati e a ogni cambio di stagione ordinava le scarpe pensando ai gusti e al portafoglio di ogni cliente. Raramente sbagliava il colpo. Quando arrivavano i clienti, lui tirava fuori le scarpe prese apposta per loro. A chi ci teneva, alzava il prezzo e poi faceva lo sconto.
Il cliente usciva dal negozio più che soddisfatto. E cliente contento chiama cliente.

Sonia puntò di scatto il microfono davanti alla bocca dell’anziano maresciallo del paese, che spaventato si ritrasse.
“Maresciallo Gellini, può raccontarci come è andata?”


Poi, qualche anno fa, le cose sono cominciate ad andare bene. Ma bene veramente. Vincenzo aveva trovato un fornitore di media qualità, che però gli faceva dei prezzi piuttosto bassi.
Le scarpe non erano il massimo, ma per la maggior parte dei suoi clienti sarebbero andate bene. E poi, il guadagno sarebbe stato veramente imponente.
Ma quello che lo fece veramente impazzire fu il momento nel quale arrivò l’euro. I suoi clienti persero la percezione del valore delle scarpe. Cinquanta euro erano come cinquantamila lire.
In quel momento, facendosi trascinare dall’euforia, Vincenzo decise di fare quello che sognava da tempo. Aprirsi un negozio più grande. Acquistò un vecchio supermercato chiuso, in centro. Merce, mobili, attrezzò un ufficio, computer, fotocopiatrice.
Per i soldi nessun problema. La sua banca gli diede credito senza fine, a lui come a molti altri commercianti.
All’inaugurazione del negozio c’erano almeno centocinquanta persone. Fu una festa memorabile.
Poi il vento cambiò. I suoi clienti cominciarono a venirlo a trovare due volte l’anno invece di quattro. Poi una. Poi sparirono. Qualcuno lo aveva visto addirittura uscire dal negozio del cinese, quel negozio orribile, con quelle scarpe di plastica, che stava nel vecchio quartiere operaio.

Sonia passò l’auricolare al maresciallo, in maniera che potesse ascoltare le domande da studio.
“Buonasera maresciallo, sono Trame”.
“Buonasera direttore”.
“Chi erano le tre persone che si trovavano davanti al negozio?”


Chi erano quei tre? Peppe ne conosceva bene uno, che bazzicava la zona da circa un anno. Si chiamava Ivan ed era un ragazzo brillante, con una bella macchina, sempre ben vestito. Diceva di avere una finanziaria e di non aver problemi a prestare soldi. Vincenzo cominciava a non passarsela bene e quindi si fece imbambolare dalla chiacchiera di quel tipo.
Io avevo sempre avuto qualche sospetto, pensò Peppe.
Infatti, i primi cinquemila euro, anzi “euri”, come li chiamava Vincenzo, arrivarono in due ore.
Dopo un mese, Vincenzo chiamò Ivan, per restituire i soldi. Ivan chiese tremila euro in più del contratto. Vincenzo lo cacciò via a calci.
Dopo qualche giorno, il cane di Vincenzo morì improvvisamente e lui, sapendo che era vecchio, non se ne preoccupò. Quando trovò le gomme della sua Punto tutte e quattro squarciate, avvertì il maresciallo Gellini.
“Finchè non succede niente, non posso fare niente. Ti posso far passare più spesso la pattuglia sotto casa. Per adesso nulla di più”. Il maresciallo allargò le braccia, come a scusarsi della propria impotenza.
Fu così che la macchina prese fuoco, e non fu autocombustione, come appurò il perito dell’assicurazione. Poi prese fuoco il portone di casa.
Ma Vincenzo non riusciva lo stesso a ottenere protezione.
Quando il suo vecchio negozio prese fuoco, Ivan fu arrestato e trattenuto per accertamenti. Ma fu rilasciato la mattina dopo.
Peppe era terrorizzato. Vincenzo invece non se la prendeva più di tanto. Ogni volta che si parlava di questa cosa, lui sorrideva. “Li aspetto”, diceva. “Ogni volta che Ivan passa davanti al mio negozio lo sfido. Vieni a prendermi, verme. Prenditela con me, non con le mie cose.”
Così, quella sera, alle otto in punto, Ivan si presentò davanti al negozio e aspettò che Vincenzo chiudesse e si avviasse verso la macchina, per fermarlo.
Vincenzo sorrise. “Eccoti qua, verme. Sei venuto con i rinforzi?”
Poi arretrò, fino ad appoggiarsi con la schiena al muro vicino al negozio. Ivan sorrise ed estrasse il suo coltello, imitato dagli altri due.
Vincenzo si tolse la giacca e l’avvolse sul braccio destro.
“Va bene, vermi. Avanti. Se siete uomini, uno alla volta.
Se non lo siete, peggio per voi.”

Il maresciallo, sollecitato dal direttore, iniziò a snocciolare il suo resoconto.
“Delle tre persone trovate davanti al negozio, uno solo è stato identificato. Si tratta di Ivan Bocci, un usuraio con precedenti penali per reati finanziari. Per li altri sono in corso gli accertamenti di rito”.
“E come sono morti?”
“A tutti e tre è stato spezzato l’osso del collo, probabilmente durante la collutazione con il Ganelli.”
“Grazie, maresciallo. Sonia, abbiamo notizie dall’ospedale?”
“Direttore, mi è arrivato ora il bollettino medico. Ganelli è gravissimo. Ha diverse ferite da arma da taglio e ha perso molto sangue, ma è fuori pericolo.”
“Grazie Sonia. Se ci sono novità, puoi chiedere la linea quando vuoi.”
“Grazie direttore. Da Gavirago al Lambro per ora è tutto. Vi restituisco la linea.”

mercoledì 9 aprile 2008

"Ogni volta" nella newsletter del mese di Marzo 2008 su Penna d'Oca

Gli amici di Penna d'Oca questo mese hanno proprio esagerato! "Ogni volta" è stato inserito nella newsletter del mese di marzo.
Sarà dura mantenere questo livello!

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Ciao
Piero

giovedì 3 aprile 2008

Il mio primo giorno da scrittore

Eccomi qua. A raccontarvi di una giornata di partenza, di fretta, di valigie, di oddio speriamo che non ci siamo scordati niente.
E poi via sull’autostrada. Destinazione Bologna. Selezione del Premio Letterario Panchina 2008.
Dopo due ore mi rendo conto del motivo per cui non vado tanto in giro. Odio guidare come nessun’altra cosa al mondo.
A pranzo ci troviamo con degli amici a Barberino, ad assaporare un po’ di carne alla griglia ed un po’ di vino rosso. Qualche schermaglia. Che andate a fare a Bologna? Lui ha il saggio di fine anno, fa mia moglie. Si, dico io, poi sto in ferie fino a Novembre. Magari, penso.
Poi l’hotel e la ricerca del Circolo Mazzini. Ma guarda, c’è anche una trattoria. Facciamo un giro, compriamo un libro e ceniamo.
Sono passate da poco le nove. Entriamo e una signora gentile mi saluta, chiedendomi se sono un “autore”. Caspita, mi fa un certo effetto essere chiamato così. Però effettivamente è quello che sono. Piacere, Piero Mattei. Buona sera, sono Grazia Gliozzi.
Non c’è molta gente, se ne accorge anche Eraldo Turra, che presenta la serata, ma non fa niente. Queste serate possono essere tutto, tranne che un evento di gran richiamo.
Si parte. Alcuni autori non ci sono e i racconti li ho più o meno letti tutti. L’attore che legge si chiama Filippo Plancher e devo dire che letti così sono proprio un’altra cosa. Specialmente “4 minuti”, che di tutti era e resta il mio preferito.
Sullo schermo appare il mio nome e Turra viene verso di me per intervistarmi. Mio figlio parte a riprendermi con la macchinetta fotografica. Sono imbarazzatissimo e mi impappino, però ci pensa Turra a togliermi d’impaccio.
Vedere per credere.



Poi Plancher inizia a leggere “La luce”. Sarà che è il mio racconto. Sarà che non ho mai sentito qualcuno leggere così qualcosa di mio, ma il cuore va a mille. A metà racconto comincio ad asciugarmi gli occhi, sconvolto.
L’applauso finale mi scioglie. Respiro. Un sorso di grappa.
Un altro racconto e si vota.

Non è andata bene, come vedete. Inutile dire che ci speravo. Ma le gare sono così. Qualche volta si vince e molto spesso no. Di questa serata mi resta un’emozione incredibile. Quella scena di pochi minuti, un mio pezzo letto per la prima volta da un attore, in quel modo, davanti a una cinquantina di persone renderà questo evento per me irripetibile.
Ci prepariamo e ci alziamo dal tavolino. Plancher mi vede e mi si fa incontro, allungando la mano destra. “Complimenti, un bel pezzo” mi fa, stringendomi la mano. “Grazie, è stata un’emozione grandissima” farfuglio io, emozionatissimo.
Forse non era solo una mia impressione allora. Gli è piaciuto davvero.
Mi avvio alla macchina, pensando che quella stretta di mano e quelle poche parole per me sono un premio più che sufficiente.
Domani si riparte. A scrivere.
Per chiudere, vi metto il video di Plancher che legge “La luce”. L’audio è pessimo, prendetelo come un cimelio.
Anche se io penso che quei pochi secondi tra la fine del racconto e l’applauso la dicono lunga.



Ciao
Piero

martedì 1 aprile 2008

Racconto - La banda


Alex ce l’ha ancora la tromba. La suonava quando era ragazzo e faceva parte della banda. E quella non era una banda qualsiasi.
Era la banda del paese.
Il capo della banda si chiamava Finotti ed era tremendo. Quando facevano le prove, dopo aver suonato per dieci, venti minuti senza fermarsi, alla prima pausa passava vicino a ognuno di loro. Tu hai saltato il si, tu il re, tu hai stonato, tu hai saltato la battuta. Non avevano scampo.
Oggi è domenica, e stamattina, sotto casa, c’è una banda. Chissà se come è il capo. Di sicuro, Alex avrebbe potuto ascoltare un po’ di musica.
Sembra impossibile, ma per sentirne un po’ deve rubare qualche momento qua e là, al tempo che non basta mai.
La macchina, con tutta la radio, l’ha venduta. Con il suo stipendio a casa non se la potevano più permettere. In televisione ogni tanto si vede qualcuno che suona, ma l’apparecchio è monopolio dei figli durante il giorno e della moglie la sera. Qualche volta la notte Alex non dorme, per via di un dolore dietro la spalla sinistra. Così si alza, va piano piano in sala, mette la televisione al minimo e sintonizza su uno di quei canali che trasmettono musica giorno e notte. Poi si sdraia sul divano e si lascia cullare, fino ad addormentarsi.
Ultimamente, Alex e famiglia non se la passano proprio bene. La moglie è rimasta senza lavoro. Capirai, con due figli, chi la prende più? E lei, che ha lavorato sempre, da quando aveva quindici anni, sta per avere un esaurimento. Sono due anni che sta a casa e ce l’ha sempre con lui. Perché i soldi non bastano mai.
Lui invece ha un lavoro che non gli piace e uno stipendio piccolo piccolo.
Poco tempo fa, è andato a parlare con il suo capo. Lui lo ha fatto accomodare nel suo ufficio e gli ha fatto un discorsetto. L’azienda è in crisi, non è il momento di chiedere soldi. Persino lui, così ha detto, sono tre anni che non si cambia la macchina e sta pensando di vendere la sua villa al mare. Ad Alex tornano in mente i discorsi di crisi che si sentivano già dodici anni prima, quando iniziò a lavorare in quel posto.
Poi gli ha voluto lasciare un messaggio di speranza per il futuro, un gesto che Alex ha molto apprezzato. Le sue parole, più o meno, sono state queste: il lavoro è questo e lo stipendio pure. Se qualche cosa non ti va, la porta è aperta, puoi andartene quando vuoi. Poi, per essere sicuro che avesse capito bene il messaggio, gli ha fatto firmare una lettera di dimissioni con la data in bianco.
Alex ha ormai raggiunto anche qualche certezza. E trovare un altro lavoro? A quarant’anni sei un rudere. Non ti prende più nessuno. A meno che tu non voglia lavorare per qualche mese, a metà dello stipendio. E forse neanche così.
Ogni volta che gli viene da ripensare a questa cosa gli si riacutizza il dolore alla spalla. Ma oggi è domenica e, cascasse il mondo, stamattina Alex sentirà la banda. Così trova una scusa per la moglie e va su a godersi lo spettacolo.
Tanto sa già che avrà da ridire anche su questo.
Si piazza sul parapetto. Ci sono pure le majorettes. Guarda attentamente, per vedere se ce ne è qualcuna carina, magari come Linda, quella che era fidanzata con Roberto. La metà delle persone che li veniva a vedere lo faceva solo per le sue gambe. Poi lei camminava davanti a tutti, era la capitana.
Dov’è il trombettista? Eccolo. Però, è bravo, pensa. Anche se avrà si e no quattordici anni, se la cava bene.
Lui però non ce la fa. Si deve andare a prendere qualcosa per la spalla.
Si avvicina al portone del terrazzo per tornare in casa e una fitta lancinante gli lacera la schiena.
Non riesce a stare neanche in piedi. Istintivamente, si mette in ginocchio e si piega in avanti, sembra che così gli faccia meno male.
Resta qualche minuto così, ad aspettare che passi. Poi qualcosa gli tira la maglia da dietro, fino a strapparla e a farla cadere per terra.
Ora gli comincia a fare male anche l’altra spalla.
Alex si gira per guardare il muro, dove è proiettata la sua ombra. E resta di marmo.
Tre braccia. La figura sul muro ha tre braccia.
Si guarda le braccia e sono sempre due. Poi riguarda il muro e ce ne sono tre. Senza staccare lo sguardo da lì, si mette in piedi e prova a roterarle. Due si muovono, mentre la terza non si muove.
Oddio. Ancora quel dolore. Dietro la spalla destra ora. Alex si rimette in ginocchio.
Dopo qualche minuto, il dolore sparisce. L’ombra sul muro ora ha quattro braccia!
Alex scatta in piedi e si mette di fronte alla sua ombra.
Prova nuovamente a far ruotare le braccia. Due si muovono. Le altre due invece stanno ferme lì, come un cristo in croce.
Ho le allucinazioni, pensa. Oppure sono pazzo. Il pazzo si comporta come tale. Potrebbe scendere giù e con un coltello e fare a pezzetti piccoli piccoli la sua famiglia, spargendo gli schizzi di sangue su tutti i muri della casa. Oppure andare dal suo capo e fargli una bella presa d’aria sul davanti.
Magari mi passa, pensa. Me ne sto qui buono buono ad occhi chiusi, sperando che l’incubo finisca. Prova a convincersi che quello che ha visto potrebbe essere un effetto collaterale dei farmaci che si sta prendendo per la spalla.
Niente da fare.
Chiudiamola qui, pensa Alex. Prima di fare qualche casino.
Prende la rincorsa verso il parapetto del terrazzo e salta giù urlando.
Dall’alto del palazzo che dà sulla piazza, lo strillo di un animale ferito impietrisce prima il pubblico che affolla il marciapiede, poi le majorettes e poi tutta la banda. Tutti si fermano, con lo sguardo verso l’alto.
In quel momento, quello che sembrava uno strano volatile planò sopra la banda, che si accucciò per non essere investita, urlando a più non posso il suo verso:
“E’ BELLISSIMOOOOOOOOOOOO!!!!!!”

Copyright Piero Mattei 2007