Questo è un incubo.
Questo fu il mio primo pensiero, entrando in quella camera. Davanti a me un mucchio di fasciature e di cerotti. Un viso deturpato. Una gamba massacrata.
Un incidente. Ma come un incidente? Un camionista come te? Anzi, tu guidi un furgone. Un furgonista. Si dice cosi’?
Ma come era potuto succedere? Tu non ricordavi nulla.
La polizia ha detto che ti sei infilato sotto un camion, fermo al semaforo. Ci sono volute ore di lavoro da parte dei vigili, per aprire quella macchinetta accartocciata e tirarti fuori.
Questo era niente. Vicino a te, il solito grugno di mamma. Che sembrava urlarti lo sapevo, te lo avevo detto che finivi male, sempre in giro la notte. Sai come sono le mamme.
Mi hai cercato con gli occhi. Il trauma ti impediva di indirizzare lo sguardo di entrambi gli occhi nella stessa direzione. Eri diventato strabico!
Un sorriso, appena percettibile sotto i cerotti. Poi hai alzato la mano, per darmi il benvenuto. E un colpo al cuore.
Tutto finito. Le serate con Stefano, le giornate di fatica con Simone. Avevi improvvisamente bisogno di tante cure.
E non potevi più camminare.
L'ospedale è diventato la mia seconda casa. Una domenica pomeriggio sono rimasto a vedere le partite in ospedale con te. Era l’ultima di campionato.
La tua squadra vinse lo scudetto, strappandolo alla sua rivale, che perse giocando in un pantano.
I dottori decisero che la prima cosa da fare sarebbe stata l'intervento al viso. Un bel lavoro, disse qualcuno, mettendo a posto perfino delle imperfezioni che avevi già prima dell'incidente. Ricordi di scambi di opinione un po' vivaci.
Cosi' hai ripreso coraggio e ti sei guardato nuovamente allo specchio, per la prima volta dopo l'incidente.
Un giorno i tuoi occhi hanno ricominciato a guardare dalla stessa parte. Qualcuno, per questo, ringraziò Padre Pio.
Tornato a casa, di tanti amici che avevi prima dell’incidente, te ne erano rimasti due o tre. Stefano, Simone, il Principe.
E’ difficile pensare di frequentare una persona che si muove a fatica dal letto. Non è che mi tocca anche scarrozzarla, alzarla per metterla in macchina.
No. Meglio di no. In fondo non eravamo neanche tanto amici.
In quel periodo ho preso l’abitudine di venirti a trovare spesso durante la settimana e sempre la domenica. Mangiavamo tutti insieme nella tua camera da letto, per non farti muovere.
Terapie. E’ solo un problema di nervi. Il dottore dell’ospedale era sicurissimo. Ma tu sentivi che comunque c’era dell’altro. Il piede non voleva saperne di assecondarti.
Giugno, Luglio. Terapie. Tutta l’estate. Tutto l’anno.
Qualche volta passavo davanti alla tua camera e ti spiavo. Seduto sul letto, con la testa tra le mani. Chissà quanta altra gente, al posto mio, avrebbe trovato sicuramente qualcosa da dirti. Una cosa qualsiasi.
Ma non io. Non ero pronto. Non sono mai pronto per queste cose. Mi è mancato il coraggio. Come sempre.
O non ne sono proprio capace. Che ne so. Qualcuno mi dovrà spiegare come si fa, prima o poi.
La sera di San Silvestro, ti sei messo in tiro. Vestito elegante, sbarbato, profumato. Ti sei seduto ad aspettare che chi te lo aveva promesso ti venisse a prendere per uscire. A mezzanotte ti sei spogliato e ti sei rimesso a letto.
Terapie. Progressi prossimi allo zero. Forse era il caso di provare anche altre strade. Ma mamma e papà non ne volevano sapere.
A Marzo, dopo mesi di discussioni, finalmente provammo qualcosa di diverso. A Bologna, al Rizzoli.
La clinica è su una collina, in periferia. Ed ecco che qualcuno ti indicò la via di uscita. Un intervento al bacino e alla testa del femore. Poi avresti potuto ricominciare le terapie. Il nervo non sarebbe mai stato recuperato del tutto. Camminare però si. Si poteva tornare a camminare.
L’operazione si fece e andò tutto bene. Ti sono venuto a trovare a Bologna. E’ sempre una città bellissima. E finalmente ho rivisto un sorriso. Ho cominciato a crederci.
Un’altra clinica specializzata, sprofondata nel verde del Circeo. La nostra nuova casa. E divenne tanto casa anche questa che il piccolo prese a chiamarla "la montagna dei fiori".
Tutta l’estate e tutto l’autunno. Terapie su terapie. Le cose migliorano. La domenica ti passavo a prendere e andavamo tutti assieme a pranzo da mamma.
Dopo qualche mese, hai cominciato a camminare da solo. Con le stampelle, ma da solo. Non avresti mai potuto guidare un auto normale, ma una con i comandi invertiti si. Cosi' ne hai trovato una.
Eri quasi tornato quello di prima. Ti mancava un lavoro. Ero in vacanza, quando mi arriva un messaggio sul telefono:
“Benzinaio. Da oggi.”
Un lavoro spossante. Stare in piedi ti pesava parecchio. Dopo due anni di inattività alla fine della giornata eri stanchissimo.
Poi hai trovato un lavoro migliore. In una fabbrica.
Sono passati altri tre anni. A quell’incidente ora penso di meno. So che tu invece ci pensi tutti i giorni.
Stefano e Simone nel frattempo sono andati. Un atroce rappresaglia del destino. Due incidenti stradali. Tutti e due con la moto. Hai mai pensato a questo?
Ci penso sempre, quando ci sediamo intorno a un tavolo e litighiamo parlando di politica.
Quando stai fino a notte fonda a casa mia per sfogarti.
Quando mi dici “Tu dici sempre…”.
Accidenti! Ma che dico sempre io? Dico forse cose memorabili? Io neanche me lo ricordo. Devo pensare di più a quello che dico.
L’abitudine di venire a pranzo da mamma la domenica è rimasta. Ormai non mi sembra neanche domenica, se non vengo.
Dopo tutto questo tempo, ho capito che non c’è nulla di impossibile. Con un po' più di immaginazione, avrei potuto capirlo anche quella domenica pomeriggio, quando la Lazio vinse lo scudetto.
Che si può perdere uno scudetto per una pioggia torrenziale.
Che si può morire in un minuto, per strada, per un’insulsa disattenzione, guidando.
Oppure vincere un campionato aspettando due ore dentro lo stadio la fine di un’altra partita.
Oppure rinascere e combattere anni contro il destino, per ritornare in corsa e battersi come gli altri.
C’è ancora una cosa. Una cosa che mi fa impazzire.
Come è andato l’incidente non l’ho ancora capito.
Me lo spiegherai tu.
Quando vuoi.
Io aspetto.
Questo fu il mio primo pensiero, entrando in quella camera. Davanti a me un mucchio di fasciature e di cerotti. Un viso deturpato. Una gamba massacrata.
Un incidente. Ma come un incidente? Un camionista come te? Anzi, tu guidi un furgone. Un furgonista. Si dice cosi’?
Ma come era potuto succedere? Tu non ricordavi nulla.
La polizia ha detto che ti sei infilato sotto un camion, fermo al semaforo. Ci sono volute ore di lavoro da parte dei vigili, per aprire quella macchinetta accartocciata e tirarti fuori.
Questo era niente. Vicino a te, il solito grugno di mamma. Che sembrava urlarti lo sapevo, te lo avevo detto che finivi male, sempre in giro la notte. Sai come sono le mamme.
Mi hai cercato con gli occhi. Il trauma ti impediva di indirizzare lo sguardo di entrambi gli occhi nella stessa direzione. Eri diventato strabico!
Un sorriso, appena percettibile sotto i cerotti. Poi hai alzato la mano, per darmi il benvenuto. E un colpo al cuore.
Tutto finito. Le serate con Stefano, le giornate di fatica con Simone. Avevi improvvisamente bisogno di tante cure.
E non potevi più camminare.
L'ospedale è diventato la mia seconda casa. Una domenica pomeriggio sono rimasto a vedere le partite in ospedale con te. Era l’ultima di campionato.
La tua squadra vinse lo scudetto, strappandolo alla sua rivale, che perse giocando in un pantano.
I dottori decisero che la prima cosa da fare sarebbe stata l'intervento al viso. Un bel lavoro, disse qualcuno, mettendo a posto perfino delle imperfezioni che avevi già prima dell'incidente. Ricordi di scambi di opinione un po' vivaci.
Cosi' hai ripreso coraggio e ti sei guardato nuovamente allo specchio, per la prima volta dopo l'incidente.
Un giorno i tuoi occhi hanno ricominciato a guardare dalla stessa parte. Qualcuno, per questo, ringraziò Padre Pio.
Tornato a casa, di tanti amici che avevi prima dell’incidente, te ne erano rimasti due o tre. Stefano, Simone, il Principe.
E’ difficile pensare di frequentare una persona che si muove a fatica dal letto. Non è che mi tocca anche scarrozzarla, alzarla per metterla in macchina.
No. Meglio di no. In fondo non eravamo neanche tanto amici.
In quel periodo ho preso l’abitudine di venirti a trovare spesso durante la settimana e sempre la domenica. Mangiavamo tutti insieme nella tua camera da letto, per non farti muovere.
Terapie. E’ solo un problema di nervi. Il dottore dell’ospedale era sicurissimo. Ma tu sentivi che comunque c’era dell’altro. Il piede non voleva saperne di assecondarti.
Giugno, Luglio. Terapie. Tutta l’estate. Tutto l’anno.
Qualche volta passavo davanti alla tua camera e ti spiavo. Seduto sul letto, con la testa tra le mani. Chissà quanta altra gente, al posto mio, avrebbe trovato sicuramente qualcosa da dirti. Una cosa qualsiasi.
Ma non io. Non ero pronto. Non sono mai pronto per queste cose. Mi è mancato il coraggio. Come sempre.
O non ne sono proprio capace. Che ne so. Qualcuno mi dovrà spiegare come si fa, prima o poi.
La sera di San Silvestro, ti sei messo in tiro. Vestito elegante, sbarbato, profumato. Ti sei seduto ad aspettare che chi te lo aveva promesso ti venisse a prendere per uscire. A mezzanotte ti sei spogliato e ti sei rimesso a letto.
Terapie. Progressi prossimi allo zero. Forse era il caso di provare anche altre strade. Ma mamma e papà non ne volevano sapere.
A Marzo, dopo mesi di discussioni, finalmente provammo qualcosa di diverso. A Bologna, al Rizzoli.
La clinica è su una collina, in periferia. Ed ecco che qualcuno ti indicò la via di uscita. Un intervento al bacino e alla testa del femore. Poi avresti potuto ricominciare le terapie. Il nervo non sarebbe mai stato recuperato del tutto. Camminare però si. Si poteva tornare a camminare.
L’operazione si fece e andò tutto bene. Ti sono venuto a trovare a Bologna. E’ sempre una città bellissima. E finalmente ho rivisto un sorriso. Ho cominciato a crederci.
Un’altra clinica specializzata, sprofondata nel verde del Circeo. La nostra nuova casa. E divenne tanto casa anche questa che il piccolo prese a chiamarla "la montagna dei fiori".
Tutta l’estate e tutto l’autunno. Terapie su terapie. Le cose migliorano. La domenica ti passavo a prendere e andavamo tutti assieme a pranzo da mamma.
Dopo qualche mese, hai cominciato a camminare da solo. Con le stampelle, ma da solo. Non avresti mai potuto guidare un auto normale, ma una con i comandi invertiti si. Cosi' ne hai trovato una.
Eri quasi tornato quello di prima. Ti mancava un lavoro. Ero in vacanza, quando mi arriva un messaggio sul telefono:
“Benzinaio. Da oggi.”
Un lavoro spossante. Stare in piedi ti pesava parecchio. Dopo due anni di inattività alla fine della giornata eri stanchissimo.
Poi hai trovato un lavoro migliore. In una fabbrica.
Sono passati altri tre anni. A quell’incidente ora penso di meno. So che tu invece ci pensi tutti i giorni.
Stefano e Simone nel frattempo sono andati. Un atroce rappresaglia del destino. Due incidenti stradali. Tutti e due con la moto. Hai mai pensato a questo?
Ci penso sempre, quando ci sediamo intorno a un tavolo e litighiamo parlando di politica.
Quando stai fino a notte fonda a casa mia per sfogarti.
Quando mi dici “Tu dici sempre…”.
Accidenti! Ma che dico sempre io? Dico forse cose memorabili? Io neanche me lo ricordo. Devo pensare di più a quello che dico.
L’abitudine di venire a pranzo da mamma la domenica è rimasta. Ormai non mi sembra neanche domenica, se non vengo.
Dopo tutto questo tempo, ho capito che non c’è nulla di impossibile. Con un po' più di immaginazione, avrei potuto capirlo anche quella domenica pomeriggio, quando la Lazio vinse lo scudetto.
Che si può perdere uno scudetto per una pioggia torrenziale.
Che si può morire in un minuto, per strada, per un’insulsa disattenzione, guidando.
Oppure vincere un campionato aspettando due ore dentro lo stadio la fine di un’altra partita.
Oppure rinascere e combattere anni contro il destino, per ritornare in corsa e battersi come gli altri.
C’è ancora una cosa. Una cosa che mi fa impazzire.
Come è andato l’incidente non l’ho ancora capito.
Me lo spiegherai tu.
Quando vuoi.
Io aspetto.
Copyright Piero Mattei 2007
2 commenti:
questo misto di ironia e disperazione.
ed il tono paternlistico di chi ti può aspettare, come un adulto aspetta il bimbo che esca da scuola.
solo: si è sfiorata la morte ed il ritardo non sarebbe stato un semplice arrivare più tardi.
si sarebbe trasformato in un "non arrivo più".
Tracce di sconsolatezza e rassegnazione.
...ma, alla fine, vince davvero il dimostrarsi ottimisti. Più che esserlo.
E basta un sorriso.
Bravo!
una jean.
Mi commuovo ogni volta che ti leggo.....
Posta un commento